L ’Accademia Cattolica di Brescia ha intrapreso quest’anno un percorso su un tema molto complesso quanto attuale, l’identità, tenendo fermo l’approccio multidisciplinare indispensabile per tracciare almeno le sue linee principali. Anche in questa occasione la nostra Associazione Ariele Psicoterapia, che oggi presiedo, è stata onorata dall’invito a “pensare insieme”.
La malattia è una cartina di tornasole della nostra identità. Contribuisce allo svelamento di noi, ma soprattutto della nostra vita. A turno ci interpella tutti. Perché la malattia, banale o crudele, capita a tutti di incontrarla. E dunque è una componente ineludibile della nostra formazione umana, di ciò che siamo, una esperienza - riferimento della nostra biografia. Ci fa scoprire solitudini e rapporti interpersonali, rassegnazione e reazione, sopportazione e fiducia, diffidenza e consapevolezza.
Tutto ridotto in polvere? In queste settimane ha sconvolto tutti l’abbandono del malato in solitudine. I parenti, prima dell’ingresso nel triage, lo salutavano senza sapere se l’avrebbero più rivisto. Quello entrava e, dopo qualche ora o qualche giorno, usciva una bara, talvolta destinata a un crematorio lontano centinaia di chilometri. Nessuna possibilità di accompagnamento al passaggio finale se non quella del personale sanitario, sopraffatto dal lavoro estenuante e dai sentimenti più contrastanti. Dopo qualche giorno, tornava una piccola urna di cenere: lì era ridotta tutta una storia di affetti e di progetti, di speranze e di illusioni?
L'umanità affronta una crisi globale. Forse la più grande crisi della nostra generazione. Le decisioni che la gente e i governi stanno prendendo ora probabilmente cambieranno drasticamente il mondo nei prossimi anni. Esse riformeranno non solo i nostri sistemi sanitari, ma anche la nostra economia, politica e cultura. Dobbiamo agire in modo rapido e deciso, tenendo contemporaneamente conto delle conseguenze a lungo termine delle nostre azioni. Quando si sceglie tra le alternative, non dovremmo solo chiederci come possiamo superare la minaccia immediata, ma anche che tipo di mondo abiteremo una volta terminata la tempesta. La tempesta passerà, l'umanità sopravviverà, ma abiteremo un altro mondo.
Di fronte ad alcune situazioni particolarmente drammatiche sorge l’interrogativo, soprattutto per il credente, “perché Dio ci fa o ci lascia soffrire?”. Non si tratta di un problema teoretico. È piuttosto un problema che nasce in un contesto di fede, che implica una conoscenza di Dio: se Dio è Padre, ed è il Dio della vita, perché ci lascia soffrire? In tal senso la domanda non nasce in chi si dichiara ateo. Va messo in conto che l’ateismo può nascere o trovare conferma nella sofferenza innocente[1].
Pensare il dopo. Lo dovremo fare tutti, teologi, filosofi, artisti, scienziati, politici, lavoratori, imprenditori, cittadini…
Che cosa sta accadendo? Che cosa ci sta succedendo? Quale ne è, se c’è, il senso ultimo e la direzione profonda? Che cosa possiamo apprendere dagli avvenimenti di queste ultime, terribili settimane? Come si devono ripensare la politica, non solo a livello statuale, e l’economia globale di fronte alla crisi in atto? Che cosa possono dire in proposito la cultura e la sua sorgente spirituale di fronte alle nostre sperimentate fragilità e a tutte le strategie messe in campo per fronteggiarle?
Nel museo civico di Breno (Provincia di Brescia) è conservata una tavoletta di ardesia sulla quale è raffigurato un giovane che fugge davanti alla morte rappresentata in piedi su un carro trainato da un cavallo nero. Il giovane è rivolto verso la morte, le braccia alzate quasi a difendersi, il volto terrorizzato, ma non si accorge che alle sue spalle si staglia una parete rocciosa, che gli impedirà la fuga. Ineluttabilità della morte, richiamata dalle molte danze macabre che nei territori vicino a Brescia (Clusone, Pinzolo) sono ancora ben visibili. L’immagine di Breno non si sofferma però sull’universalità della morte, bensì sull’inutile fuga di fronte a essa.
Un importante politologo tedesco Franz Neumann (1889-1954) – emigrato negli Stati Uniti per sfuggire al Nazismo – scrisse un saggio su “L’angoscia e la politica” (1957),nel quale analizzava il costante ritorno, in caso di crisi economiche protratte nel tempo, di una angoscia esistenziale che minaccia l’identità di sé e dei gruppi sociali e porta, insieme, alla delegittimazione delle autorità e alla ricerca di nuovi leader in grado di sedare queste minacce, magari incolpando qualcuno come capro espiatorio.