Costruire l’identità personale: fatiche e possibilità delle nuove Generazioni

Costruire l’identità personale: fatiche e possibilità delle nuove Generazioni

L ’Accademia Cattolica di Brescia ha intrapreso quest’anno un percorso su un tema molto complesso quanto attuale, l’identità, tenendo fermo l’approccio multidisciplinare indispensabile per tracciare almeno le sue linee principali. Anche in questa occasione la nostra Associazione Ariele Psicoterapia, che oggi presiedo, è stata onorata dall’invito a “pensare insieme”.

Rivolgo quindi il mio ringraziamento a nome di tutta l’Associazione al prof. Monsignor Giacomo Canobbio e al prof. Francesco Tomasoni, non solo per il proseguimento della collaborazione, dopo le positive esperienze passate, ma per averci ancora una volta stimolato a produrre idee[1] e a confrontarle in un contesto multidisciplinare.

Il confronto, in questi tempi di grandi sconvolgimenti ed inquietudini, ha subito come tante altre nostre esperienze una dislocazione spazio-temporale dalle dimensioni inedite. Così alla conferenza si sostituisce una pagina web. La scrittura prima e la lettura poi, con la loro spinta alla riflessione ed all’immaginazione in un tempo privato, sottraggono all’esperienza la presenza fisica, la simultaneità dell’incontro in un tempo condiviso collettivamente. Ora anche questo, come altri incontri, si è trasferito nella grande rete. Si tratta, in fondo, di una accelerazione di ciò che era già cominciato, in particolare per le nuove generazioni, e che stava già comportando un cambiamento importante delle coordinate su cui si costruisce l’identità, il nostro argomento, che è proprio nell’incontro e dall’incontro che viene generata.[2]

Un tema complesso in un contesto turbolento

La varietà dei punti di vista che le varie discipline assumono sull’identità della persona, non si restringe in ambito psicologico, scienza particolarmente incline alla molteplicità delle teorie, e costringe a darsi dei limiti che renderanno inevitabilmente parziale e lacunosa la trattazione. Non solo: mettere a fuoco la costruzione dell’identità personale nelle nuove generazioni deve fare i conti con gli occhiali deformanti di noi adulti, terapeuti, ma nel contempo ricercatori, poiché le nuove generazioni vivono già in un mondo di cui non padroneggiamo più i contorni, se mai li abbiamo padroneggiati in passato.

Il salto d’epoca[3] che si è rapidamente consumato da più di un decennio, ci ha portato in un tempo in cui le nuove generazioni per la prima volta dal dopoguerra si confrontano con una prospettiva futura meno favorevole ed espansiva di quelle precedenti, con un dato in più nel nostro paese, un impoverimento numerico senza precedenti, peraltro annunciato già alla fine degli anni novanta, dove i più giovani non sono mai stati così poco rilevanti nella piramide demografica, che condiziona, in modo miope, l’agenda politica[4].

Questa situazione si accompagna ad una imponente mutazione[5] che la rivoluzione tecnologica sta provocando nel sistema produttivo, culturale, delle istituzioni sociali, ma soprattutto nella quotidianità delle relazioni interpersonali[6], una mutazione che le vecchie generazioni possono vedere e anche soffrire, ma che per le nuove, che vi sono nate e vi sono intrise, rappresenta l’habitat normale.

È come accostarsi ad una popolazione in parte sconosciuta, un po’ da antropologi, un po’ da chiaroveggenti, e cimentarsi in una sorta di antropologia del futuro.

Per chi fa ricerca, ma soprattutto per quelli che sono direttamente interessati, i nostri giovani protagonisti, lo sguardo prospettico sul futuro è importante perché, da un certo momento della vita in poi, dirige la traiettoria della conquista dell’identità.

Date la varietà e fluidità di questi scenari e dei numerosi altri elementi che dovrebbero concorrere a formare un’idea abbastanza solida dell’identità personale, dovremmo provare a mettere almeno qualche punto fermo.

Se ci chiediamo come si costruisce l’identità, credo che dobbiamo partire dal corpo e dai suoi confini, quello che lo psicoanalista Didier Anzieu ha chiamato Io-Pelle, la membrana permeabile che, come quella della cellula, nel definirci ci mette contemporaneamente in relazione con l’esterno. Un corpo che ha una sua storia, legata anche all’eredità biologica delle generazioni che ci hanno preceduto e che interagisce nel presente secondo un disegno che ne orienta il futuro.

L’immagine psichica di sé, allo stesso modo del corpo dal quale non è scindibile, si plasma nel tempo grazie all’intreccio dinamico del passato, cioè all’eredità culturale delle generazioni passate, con il presente e con l’influsso sul presente delle rappresentazioni del futuro.

Siamo abituati a pensare che chi non ha memoria, e l’identità è memoria, non ha futuro. Con tutto il vero di questa affermazione, dobbiamo riflettere anche come possa esserci memoria del passato se non c’è una prospettiva di sé nel futuro. Potremo dire con altrettanta forza che chi non ha futuro non ha memoria.

«[...] nel gioco della memoria devi scrutare il futuro per interrogare il passato, si punta sull’avvenire per capire l’avvenuto. Abbiamo sempre l’impressione che sia il contrario, che dal passato s’impari e che senza quello, senza memoria, non ci sia futuro, ma è piuttosto vero il contrario: chi non ha un’idea del futuro non sa porre domande al passato, e senza una domanda, i ricordi restano coperti e muoiono».[7]

La conquista, la costruzione dell’identità, come dicono le parole stesse “conquista” e “costruzione”, è un progetto, si proietta sul domani. È quella progettualità che in Psicosocioanalisi viene racchiusa nel concetto di “puer”[8], il figlio «lo stato originario interno, fonte delle potenzialità di ognuno; il nucleo naturale buono di ogni individuo, germinale e potenzialmente creativo, che nelle relazioni e nei contesti può trovare le opportunità di esprimersi o di atrofizzarsi»[9].

Quello che siamo è il prodotto complesso della storia dei nostri movimenti nel mondo e dei nostri incontri, che rimodulano ininterrottamente questo progetto, nel corpo e nella mente.

Carattere generale dell’identità come flusso/narrazione

La costruzione dell’identità è quindi un continuum, come spiega Francisco Varela: «Il concetto di un sé, di un agente cognitivo che è sempre lo stesso, appartiene al passato. In ogni momento le esperienze sorgono e tramontano, un torrente rapido e mutevole di eventi mentali transitori. Inoltre la mutevolezza include il soggetto della percezione non meno delle percezioni stesse. Non esiste un soggetto dell’esperienza che rimanga immutato nel fare esperienza. […] L’identità si costruisce radicalmente momento per momento».[10]

C’è un racconto che viene spesso usato per rappresentare il paradosso della continuità dell’identità nel suo continuo trasformarsi: quello della nave di Teseo. Narra Plutarco:

«La nave sulla quale Teseo riportò in salvo i giovani guerrieri (erano prigionieri del Minotauro), era a trenta remi, e gli Ateniesi la conservarono fino ai tempi di Demetrio di Falera (mille anni), asportando i legni deteriorati e sostituendoli con dei pezzi nuovi e forti, tanto che i filosofi, disputando sulla crescita delle cose, portano questa nave come esempio, convinti alcuni che si tratti della stessa nave, altri del contrario».[11]

Così succede al nostro corpo biologico, che nel corso del tempo risulta significativamente cambiato nelle sue particelle elementari, tenute insieme tuttavia da una organizzazione duratura, cioè dall’insieme di regole che connettono cellule ed organi e le fanno funzionare tra di loro. «La nostra continuità si appoggia sul corpo… Abbiamo dunque un sistema interno alla nostra vita stessa che ci assicura un certo tipo di continuità. Io la chiamo l'identità infinita del giorno per giorno. Se non abbiamo questa identità fisiologica, ci ammaliamo o moriamo». Sostiene il noto neuroscienziato Antonio Damasio[12].

In modo diverso possiamo dire altrettanto per la nostra identità personale, di cui anche il corpo è parte integrante: non c’è un luogo dove si è depositata e stratificata. Ci contraddistingue il modo originale e irripetibile in cui sono intrecciate le nostre esperienze e ci hanno modificato pur rimanendo sempre noi stessi, non il loro accumulo da qualche parte.

Il ricordo del susseguirsi di queste esperienze, tenuto insieme da un filo e aggregate in una storia, sottolinea il carattere narrativo della nostra identità: «una dimensione storica in cui solo la narrazione crea continuità tra presente e futuro». [13]

«Il sé autobiografico si forma sulla base di ricordi passati e di ricordi di progetti che abbiamo fatto. È il passato vissuto e il futuro che attendiamo». [14]

La nostra identità coincide con la nostra narrazione di noi, della nostra storia, così come l’andiamo a costruire in base alle esperienze. Soggiace quindi alle leggi del racconto e ancor prima alla formazione del linguaggio. Ci dice sempre Varela: «Nell’uomo l’identità è anche un processo linguistico […] la capacità linguistica dà nell’uomo una nuova abilità, la narratività che permette la costruzione di una identità narrativa».[15]

Aggiungo per inciso che considerare l’individuo come narrazione sta anche alla base delle terapie di parola, come la Psicoanalisi, che vanno a riscriverne la storia, con un itinerario psicoterapeutico votato a ricostruirla, ricuperando il rimosso, offrendo un senso nuovo alle esperienze, per rendere coerente, ma soprattutto autentico il racconto distorto dalle disavventure della vita psichica. Nel caso delle patologie più gravi, nei disturbi dell’identità come nella psicosi, la ricostruzione narrativa tenta di colmare le lacune, riannodare i frammenti per provare a ricostruire l’esperienza concreta e mentale di una relazione di accudimento dove è mancata o è stata impedita dalla sofferenza.

Corpo, incontro, socialità, autobiografia, progetto, passato, futuro, sono queste alcune delle parole chiave a cui ci rivolgiamo per tentare di comprendere la formazione dell’identità delle nuove generazioni.

Dobbiamo anche ricordare che ogni narrazione collettiva sull’identità di una generazione diventa una generalizzazione: mentre rimane probabilmente universale il percorso specie-specifico orientato alla sopravvivenza di ogni singolo essere umano, le condizioni di partenza e gli itinerari locali non sono universali, diverse strutture sociali e sovrastrutture culturali anche molto distanti tra loro, diversi sottogruppi sociali, possono essere compresenti nello stesso tempo e luogo, e dar vita a progetti identitari molto differenti, con risorse diverse e potenzialità creative disuguali.

Richiamando il titolo della conferenza potremmo dire che per ogni individuo si tratta di affrontare un percorso ad ostacoli, un percorso che comporta fatiche, ma che ad ogni superamento porta a nuove possibilità. Ogni ostacolo rappresenta un apprendimento e come ogni apprendimento una trasformazione. Le esperienze che andiamo accumulando nel tempo ci costruiscono modificandoci e facendoci crescere.

Ci troviamo quindi davanti ad un paradosso che presuppone una concezione dinamica dell’identità: ad ogni ostacolo superato non siamo più gli stessi, eppure siamo sempre noi stessi. Anche il linguaggio comune ne prende atto: non sei più quello di prima, o viceversa, sei sempre uguale, non cambi mai, per sottolineare come non si sia imparato dalle proprie esperienze.

Questa continua ristrutturazione psichica non viene mai sollecitata così intensamente come nella pubertà dai cambiamenti del corpo e mai come nell’adolescenza dalle vicissitudini della vita sociale: è una fase del ciclo vitale che porta con sé una turbolenza peculiare, dotata di un particolare potere trasformativo e capace di reindirizzare fino a stravolgere le traiettorie di vita e il senso di sé.

Lo sguardo dell’altro: fin da piccoli

Benché la costruzione dell’identità sia un continuum, possiamo tuttavia osservare alcune tappe particolari, situazioni speciali e determinanti, come appunto la fase biologica della pubertà che segna l’avvio del periodo dell’adolescenza, o come, all’alba, la fase dei primi momenti di vita. La ricerca scientifica ci suggerisce che le premesse per la futura costruzione dell’identità delle nuove generazioni siano addirittura in gioco già dal periodo periconcezionale, nelle condizioni fisiche e nelle rappresentazioni psichiche dei due genitori.

Se per comprendere l’identità assumiamo la prospettiva narrativa, possiamo vederla sotto forma di apprendimenti successivi che il nostro organismo accumula nel tempo per essere sempre più adeguato a risolvere i problemi della sopravvivenza. Parallelamente sul piano mentale possiamo altrettanto vederla nel racconto di sé man mano che prende forma il pensiero.

Questo racconto, la nostra identità percepita, anche se viene sperimentato innanzitutto come rivolto a sé stessi, implica in realtà sempre un interlocutore, l’altro. Come giustamente troviamo riportato nella presentazione dell’Accademia a questo ciclo di conferenze, “è nelle relazioni che l’identità si costruisce e si custodisce”.

La narrazione dell’identità è quindi inevitabilmente una narrazione sociale, tanto quanto, e forse proprio perché si è formata grazie ad un incontro, si è andata configurando grazie a relazioni sociali.

È il frutto di un processo che conosciamo come “processo di separazione-individuazione”, dove dall’insieme indifferenziato madre/bambino prende corpo e mente, un nuovo soggetto, con i propri confini e le proprie caratteristiche originali ed irripetibili, che saranno quelle che gli altri intorno a lui man mano gli riconosceranno.

Per molti decenni le scienze mediche e psicologiche hanno immaginato il neonato come già identificato dal proprio corredo genetico immutabile, per quanto confrontato e stimolato dall’ambiente e dagli eventi. L’identità è stata vista quindi come in buona parte ereditata e già scritta, attribuendo all’ambiente un ruolo, benché non secondario, incapace di incidere sulla struttura biologica profonda. Una visione piuttosto statica, come era stata peraltro anche quella psicosociale prima dell’avvento dei pionieri della psicologia dello sviluppo.

In realtà il moltiplicarsi, relativamente recente, di studi sull’epigenetica, hanno mostrato che le cose sono più complesse, e che la struttura portante dell’individuo risulta molto più plastica e soggetta alle influenze ambientali di quanto si potesse immaginare.

La cosa più sorprendente, benché intuitiva, è che non solo l’esposizione ad agenti fisici e chimici dell’ambiente, dall’aria alla nutrizione e così via, influisce in modo profondo sullo sviluppo biologico complessivo dell’organismo, ma che le relazioni, già nella gestazione, ma in particolare nei primi anni di vita, hanno un impatto altrettanto rilevante sullo sviluppo neurobiologico, modificando cioè non solo il funzionamento, ma anche la stessa struttura del sistema nervoso, la nostra macchina per elaborare le esperienze, per pensare.

Un buon funzionamento di questa struttura neurobiologica, e in particolare delle architetture neuronali, che secondo Damasio sono responsabili della coscienza, è imprescindibile per permettere al soggetto di crescere di riconoscersi, di assumere un’identità.

La consapevolezza del peso delle influenze esterne sta alla base di una delle più importanti recenti dichiarazioni dell’OMS, redatta a Minsk nel 2015 (act early, act on-time, act together), voluta per rimettere al centro dell’attenzione l’età evolutiva, chiamando ad una azione precoce, tempestiva e socialmente condivisa, che recita tra l’altro: la traiettoria della vita umana è influenzata da eredità genetiche, epigenetiche e intrauterine, da esposizioni ambientali, da relazioni familiari e sociali capaci promuovere e sostenere la crescita, da scelte comportamentali, da norme sociali e da opportunità che vengono offerte alle generazioni future, e dal contesto storico, culturale e strutturale …[16]

È affascinate e insieme preoccupante avere la conferma che funzioni fondamentali come quelle sensoriali, motorie, del linguaggio, si possano rapidamente impoverire fino a spegnersi in mancanza di una stimolazione in cui la componente affettiva assume un ruolo cruciale. Ed è interessante sentir parlare sempre più spesso medici, neurobiologi, genetisti ed epidemiologi delle carezze materne, dell’ascolto della musica, della lettura precoce e della loro importanza sullo sviluppo concreto del cervello e delle sue funzioni e degli esiti per il singolo e per le comunità.

Quelle che sono state svalutate troppo spesso come congetture poco rigorose degli psicologi, assumono oggi un prepotente rilievo scientifico.

Lo sguardo materno si rafforza così come il paradigma originario della nostra identità. Di qui l’importanza di “come sta” e di “ciò che fa” la madre. Lo sguardo della madre assume il ruolo di precursore ed impronta per tutti gli altri futuri scambi relazionali. L’identità è in relazione con quella capacità responsiva materna di cui parla Donald Winnicott[17], pediatra e psicoanalista, quando ci ricorda che nel viso della madre il bambino vede sé stesso, legge le emozioni e le fa proprie. È così che cominciamo a formarci come individui e non solo nella mente, anche nella nostra struttura neuro-biologica.

A questo proposito non possiamo ignorare che studi molto approfonditi ci dimostrano anche come un buon patrimonio di partenza possa subire un repentino impoverimento e un patrimonio relativamente povero può essere arricchito proprio da questo accudimento familiare e sociale. Le funzioni cognitive ed affettive di base che sostengono la formazione dell’identità, da subito si confrontano con le fatiche e le possibilità connesse con le condizioni socioeconomiche e culturali della famiglia di origine. Le nuove generazioni avranno una sfida legata specificatamente anche a questa dotazione di base ed alle esperienze precoci, in cui la cosiddetta povertà educativa rivestirà un ruolo cruciale.[18]

Dobbiamo ricordare che, dalle osservazioni più lontane di René Spitz sulla depressione anaclitica[19], alla morte per marasma dei bambini ospiti precoci dei brefotrofi (salvo non godessero di qualche attenzione particolare da parte di qualcuna delle assistenti), fino agli esperimenti recenti di Tronik e Brazelthon sul “Face to Face Still-Face”[20], tutto parla di quanto lo sguardo responsivo sia “vitale”.

Quindi, se sono gli sguardi dell’altro, a partire da quello originario della madre, a dirci chi siamo e come siamo, così si modula, fin da piccoli, anche la nostra identità di genere uomo/donna che, a partire dal sesso biologico maschio/femmina, viene orientata fin da subito e successivamente ribadita attraverso reiterati rimandi sociali, in modo via via diverso secondo le epoche, l’organizzazione familiare e sociale, le culture.

Pubertà e adolescenza: balzi in avanti e identità rimessa completamente in gioco

L’enfasi sulla plasticità dell’organismo, in particolare delle strutture psichiche e sul ruolo individuante della relazione, è giustificata dal fatto che si tratta delle caratteristiche che rendono particolarmente dinamico il periodo adolescenziale.

L’organizzazione che il soggetto ha costruito fino a quel momento è rimessa parzialmente in gioco dalla repentina e importante trasformazione biologica che il corpo bambino subisce per avviarsi rapidamente a diventare adulto. Alcuni studiosi sottolineano come l’identità corporea costruita e vissuta fino a quel momento subisca per prima una scossa notevole: la memoria percettiva del proprio corpo non corrisponde più all’esperienza del corpo che si presenta qui e ora, un corpo ancora instabile, in continua, disarmonica trasformazione. Qualcuno parla di un vero e proprio lutto del corpo/bambino che rimette in gioco la rappresentazione di sé. In questo senso può essere per esempio letta l’anoressia anche come tentativo di impedire lo sviluppo del corpo adulto/sessuato, oppure la ricomparsa dell’enuresi o di altri quadri sintomatologici regressivi o di blocco del processo di sviluppo (il cosiddetto breakdown evolutivo). La ricerca di una nuova identità diventa da quel momento il compito principale su cui vengono indirizzate tutte le energie, e sul piano psichico questo segna l’avvio di un nuovo processo di individuazione/separazione, un percorso di riconquista, a tratti affannosa, di un’identità psichica e sociale, in cui lo sguardo degli adulti diventa di nuovo fondamentale.

Analogamente allo sguardo materno sul bambino, è ancora nello sguardo dell’adulto che le ragazze e i ragazzi cercano gli indizi della propria presenza, del suo significato e valore sociale. In questi nuovi rispecchiamenti ciò che l’adulto apparirà al ragazzo sarà in rapporto a ciò che l’adulto sarà in grado di percepire di lui e di restituirgli. Due psicoanalisti francesi, i coniugi Kestemberg, negli anni sessanta, definirono i cambiamenti di questa fase della vita come un nuovo organizzatore psichico, e sottolinearono l’importanza di quello che chiamarono sguardo identificatorio (regard identificatoire) da parte dell’adulto[21].

Ma l’adulto questa volta ormai non è più rappresentato dai genitori: è l’“altro”, nuovi “altri da sé”. La necessità di differenziazione rispetto ai genitori comporta le turbolenze note a tutti, le radicali e spesso prepotenti prese di distanza adolescenziali. Quella che viene chiamata anche contro-dipendenza, altro non è che l’affermazione della diversità, originalità e irriducibilità di una identità personale che tuttavia non ha ancora preso una forma, ma che proprio attraverso questo processo si avvia ad assumerla.

Il suo disperato bisogno di differenziarsi dai propri genitori, che nella sua mente non sono più gli stessi di prima, costringe l’adolescente ad un lutto rispetto a quelli perduti, un po’ come per il corpo, che può condurre, per esempio, fino alla fantasia di non esserne veramente figli, un passeggero delirio di genealogia.

Ora, la nuova plasticità della personalità in quest’età della vita è al giorno d’oggi molto probabilmente una risorsa e possiamo pensarla addirittura come una conquista evolutiva delle capacità adattive umane. Va detto infatti che l’adolescenza così come la conosciamo è una concettualizzazione recente e affonda le sue radici nella cultura occidentale. Alcuni storici parlano dell’adolescenza come costruzione sociale, come una fase nella crescita a cui alcune società in determinati periodi hanno attribuito particolare significato[22].

In effetti per lungo tempo nella storia il transito dalla condizione di bambino a quella di adulto non sembra aver conosciuto un periodo intermedio ed era sancito da precisi riti di passaggio in una organizzazione sociale sostanzialmente statica. Dal primo Ottocento, considerato l’avvio dell’età contemporanea, in particolare con la rivoluzione industriale, il contesto e l’organizzazione della vita nel mondo occidentale sono andati via via modificandosi prima più lentamente, poi con accelerazioni successive, diventando universali ed imponenti negli ultimi decenni. Questo nuovo mondo ha reso gli strumenti, nati per un mondo tutto sommato semplice, sempre più rapidamente desueti ed inservibili per orientarsi nella complessità.

Una fase di vita “intermedia” tra l’adulto e il bambino, più fluida, più ricca di potenzialità che di competenze consolidate, permette tuttavia di riorientarsi prontamente in un mondo in continuo e rapido mutamento, sia pure col rischio di un prolungamento all’infinito, le cosiddette adolescenze interminabili.

È evidente anche il mare di incertezze senza precedenti in cui si riorganizza oggi l’identità nel percorso bambino/adulto, producendo un soggetto che dovrebbe diventare capace di molte cose e mai fissato su nessuna. Ne abbiamo riscontro con i nuovi ruoli sociali e le nuove professioni a cui non corrisponde da tempo una casella nelle griglie formative tradizionali, come anche con la fine delle ideologie e dei costrutti identitari introdotti dall’avvento della cosiddetta società liquida e a cui corrispondono identità liquide concettualizzate da Bauman[23].

La diluizione o la scomparsa dei riti di passaggio sono il corrispettivo di questa diluizione del confine tra mondo bambino e mondo adulto. Un confine che tuttavia viene avidamente cercato, quando i riti tradizionali, per esempio il servizio di leva nei maschi, vengono sostituiti da quelli autoprodotti, come il superamento di prove, spesso svuotate di significato e di apprendimenti, quali comportavano invece quei riti, ma non per questo meno cariche di rischi, anche mortali. Nelle ragazze possiamo registrare per esempio il balzo in avanti dei comportamenti sessuali di carattere esibizionistico, la ricerca di conferme, di costituire un oggetto di interesse, fino ad una promiscuità accentuata in alcune di loro che sembrano saltare con tutti e due i piedi nella sessualità adulta, senza un percorso per prove ed errori.[24]

Sia detto qui per inciso, l’identità sessuale non esce indenne da queste turbolenze, incardinata com’è nel corpo e nell’identità personale conquistata fino a quel momento, che, scardinata la vecchia organizzazione, subisce come tutto il resto l’ansia definitoria, definizione che il soggetto va cercando nel sociale, anche con conclusioni affrettate verso il proprio orientamento sessuale e la propria identità di genere.

Vanno lette a mio parere in questo contesto le precoci dichiarazioni di omosessualità a cui talvolta assistiamo, quando ancora non è stata fatta in realtà una scelta sessuale definitiva. Sono scelte spesso sovradeterminate dalla necessità di una assunzione di un’identità sociale, più o meno valorizzata all’interno del gruppo dei pari, dove essere omosessuali diventa un riferimento, o accentuate nella loro funzione di individuazione attraverso il rifiuto e lo scontro con i genitori, magari toccandoli su uno dei pochi argomenti ancora in grado, assieme alla droga, di preoccuparli.

Si tratta di una questione diversa dal riconoscimento, spesso faticoso e tormentato, del proprio autentico orientamento sessuale, in qualche caso già contrassegnato nella storia remota della persona da un’inclinazione omosessuale. È piuttosto la frettolosa assunzione di una pulsione non ancora ben differenziata, fisiologica e polivalente in adolescenza, come direzione definitiva dell’identità di genere. Lo scopo sembra essere più quello di disinnescare l’ansia dell’incertezza, l’insopportabilità di una mancanza di definizione, un tentativo di distinzione e di ottenere riconoscimento, attraverso però un’omologazione alternativa[25]. In questi casi può succedere che l’identità di genere riassuma e sostituisca anche le altre dimensioni dell’identità e dei variegati ruoli sociali che la vanno a comporre, dove l’essere omosessuale rischia di diventare una categoria che colonizza tutta la persona, uno stereotipo sia nel sentire soggettivo che nel riconoscimento sociale, perdendo di vista tutto il resto.

Tutto quello di cui si è parlato in questa lunga dissertazione, necessaria a mio parere per fare il punto su molti aspetti, benché probabilmente risaputi, ha messo a fuoco alcuni meccanismi fisiologici di base che sono probabilmente immodificabili: l’esperienza dello sviluppo della persona umana, con le sue tappe e la parallela acquisizione dell’identità, si ripete secondo un itinerario tracciato piuttosto rigidamente, un canovaccio abbastanza stabile che disegna il ciclo di vita dalla nascita alla morte. Quello che cambia e in modo molto rilevante, fino a rivoluzionare ogni cosa, è il contesto in cui questo programma fisiologico viene sviluppato.

Per esplorare come si presentano nel tempo presente fatiche e possibilità della conquista dell’identità, forse bisognerà tentare di rispondere alla domanda: se la condizione della ricerca/costruzione dell’identità personale nelle giovani generazioni soggiace a queste regole, a questo palinsesto, come si modifica e cosa diventa oggi la narrazione sociale di sé che la costituisce?

C’è qualcuno là?

Dove è finito oggi lo sguardo dell’altro? L’imperiosa domanda di riconoscimento, di essere di nuovo battezzati con un nome, da una parte, e le risposte a questa fame di sguardi dall’altra, diventano il passaggio su cui dobbiamo soffermarci per riflettere su come si muovono le nuove generazioni nel costruire l’identità personale.

Già più di vent’anni fa avevo avuto modo di scrivere intorno ad un cambiamento che mi sembrava degno di attenzione: una sorta di progressiva deriva rinunciataria, riscontrabile in una parte crescente del mondo adulto, rispetto al compito psicologico ed educativo nei confronti delle nuove generazioni[26].

Il presupposto, noto e riconosciuto, è che, i genitori vengono messi oggettivamente fuori gioco dalla ribellione adolescenziale. Nondimeno devono continuare ad “esserci” e a riproporsi come riferimento instancabile e come testimonianza ferma del senso delle regole, cercando di sopravvivere alla propria inevitabile insufficienza, come suggerisce Donald Winnicott. A questo scacco transitorio della famiglia di origine corrisponde la necessità che si concretizzi una funzione vicariante da parte di altri adulti di riferimento, sia in una istituzione, come nella scuola, sia nella comunità.

La riflessione si concentrava, all’epoca, su quanto stava diventando anno dopo anno più difficile per un insegnante, un allenatore, un sacerdote, un amico o amica di famiglia, un adulto investito affettivamente in modo particolarmente significativo, prendersi la responsabilità di uno sguardo individuante sull’adolescente. Prima ancora che di una funzione educativa, si tratta della restituzione di una nuova identità sociale, più paritaria, che un adulto può rivolgere al nuovo adulto in formazione, e che può essere meglio accettata perché depurata dalla vergogna della dipendenza, ribadita invece inevitabilmente nella condizione di figlio.

L’indebolimento, se non la perdita, del senso di comunità, l’allentamento delle reti sociali solidali, faceva già allora diventare il carico troppo grande, dato che la richiesta dell’adolescente è per definizione “senza mezzi termini”; un carico insopportabile per un adulto solo, che deve poter sostenere e gestire travolgenti dinamiche affettive: gli inevitabili conflitti, ma anche le insidie della seduzione, dei singoli e dei gruppi (penso a certi gruppi classe particolarmente impegnativi).

Ma la condizione di solitudine degli adulti (e non solo) è purtroppo uno dei fattori emergenti della nostra vita sociale.
Se gli adulti diventano dimissionari, soprattutto sul versante di quello che lo psicoanalista Franco Fornari ha definito il Codice Paterno, tanto da indurre Mitscherlich già nel 1963 a prospettare una “società senza padre”, le istituzioni sembrano altrettanto erose nella loro autorevolezza e credibilità, con la conseguenza che l’attesa dello sguardo non trova un luogo di accoglienza se non nel gruppo dei pari. Lasciare il riconoscimento identitario nelle mani del solo gruppo dei pari, che già di per sé costituisce comunque il fattore più potente[27], coesivo e inattaccabile dell’appartenenza identitaria in questa età, non potrà che avere esiti non governabili, imprevedibili, nel bene e nel male.

Per sottolineare il ruolo e la responsabilità della comunità adulta, utilizzavo come metafora la vicenda di Kaspar Hauser, un diciassettenne che compare nella primavera del 1828 a Norimberga: «nessuno sapeva di dove fosse venuto ed egli stesso non era in grado di fornire alcun particolare sulle proprie origini».

Perduti i genitori, nel suo caso per una violenta separazione precoce, motivata da ragioni rimaste oscure, Kaspar si affaccia alla storia dopo una lunghissima prigionia, con il mistero di una identità tutta da scoprire, forse nobile e politicamente pericolosa, che lo porterà alla morte precoce. Ma al di là della curiosità per il mistero e gli intrighi politici, è molto potente in questa storia anche il sincero interesse[28] e la spinta in molti adulti a farsi carico di un giovane a cui è stata tolta una parte cruciale della vita, la cui identità va ricostruita, prendendosi cura di lui nel presente. È il ruolo che, primo di altri adulti che se ne occuperanno successivamente, assume nel racconto storico il Borgomastro di Norimberga, che in quanto sindaco della città si fa carico del trovatello, suggerendo, nella rilettura metaforica, il nesso imprescindibile tra istituzioni e comunità di individui, necessario per farsi carico dei figli, a prescindere dalla loro nascita, e quindi del futuro della polis.

Ritengo che se alcuni adulti, diversi dai genitori, riescono a farsi carico della restituzione di uno sguardo individuante all’adolescente è perché non si sentono soli, perché sentono l’appartenenza ed il sostegno comunitario, perché si sentono ancora, nonostante tutto, sostenuti dalle istituzioni, condizione tanto più necessaria quanto più è intensa e ineludibile la richiesta affettiva.

Non è indifferente che la Convenzione ONU sui Diritti dell'Infanzia e dell'Adolescenza si occupi esplicitamente di questo: Il diritto a conoscere i suoi genitori e a essere allevato da essi si fonda sulla necessità assoluta di una relazione di riconoscimento e accudimento primario che poggia sullo sguardo genitoriale, come l’assistenza e protezione sociale poggiano sullo sguardo dell’intera comunità[29].

Il presupposto è che vi sia condivisione e consistenza di questo e di altri cosiddetti garanti metasociali - le grandi strutture di inquadramento e di regolazione della vita sociale e culturale: miti e ideologie, credenze e religione, leggi, autorità e gerarchia[30] – garanti messi in continua discussione dalle grandi trasformazioni storiche[31]. Nel nostro caso una delle manifestazioni più evidenti di questo indebolimento dei garanti metasociali è per esempio la rottura del patto educativo tra genitori e insegnanti che è andato consumandosi negli anni ’90, solo una delle tante possibili che ruotano intorno al passaggio critico della cosiddetta fine della prima repubblica.

Credo che l’analisi, condivisa a suo tempo con i colleghi impegnati nei CIC (Centri di Informazione e Consulenza nelle scuole) di fine anni ’90, rimanga valida e che il problema si sia accentuato con la mutazione epocale a cui abbiamo l’avventura di assistere. L’irruzione della grande rete nella quotidianità ha portato con sé l’amplificazione, grazie ai social network, del ruolo dei gruppi di pari, con la definitiva sottrazione al controllo dell’adulto, ma anche al suo sostegno, di gran parte della vita relazionale degli adolescenti. Quest’ultima, ormai esportata nello spazio/tempo della rete, al di là dei casi di un eventuale drammatico disinteresse dei genitori, è diventata ancor più inaccessibile per poca dimestichezza, distrazione, illusione o inganno del controllo di una rassicurante presenza fisica, quando invece la vita psichica ed affettiva è già altrove.
Dobbiamo ricordare anche che il mancato intervento genitoriale, al di là delle ragioni, suona come un’autorizzazione implicita, e svincola le azioni dalla necessità di contrattare un permesso, impegno che più probabilmente dovrebbe essere esercitato nella rivendicazione della libertà di movimento negli spazi non virtuali. L’estremo patologico lo ritroviamo nel fenomeno degli Hikikomori, giovani, per lo più maschi, che chiusi in un completo ritiro sociale diventano progressivamente inaccessibili agli stessi genitori conviventi.

Lo spostamento della vita nel web è la vera sfida contemporanea e futura[32]. Lì si gioca gran parte della nuova costruzione delle identità, lì le nuove generazioni incontrano le nuove fatiche e le nuove opportunità. Ma questa è un’affermazione difettosa.

La possibilità di comprendere pienamente questa nuova popolazione è “antropologicamente” limitata per chi ha vissuto e magari vive ancora fuori dal mondo virtuale, per chi ha poca dimestichezza con quello che Baricco in “The Game” ha denominato l’oltremondo, ma anche per chi lo padroneggia molto bene, pur affondando le proprie radici culturali nell’epoca pre-digitale.

Noi infatti continuiamo a ragionare intorno ad uno spartiacque, un prima e un dopo, un di qua del mondo reale e un di là del mondo virtuale, una distinzione che per i nativi digitali non ha senso. È tutto altrettanto reale, anche la parte più incorporea della socialità, e anche la parte incorporea del corpo stesso, la sua immagine, trasferita sui social network.

Questo cambiamento epocale non pare tuttavia aver modificato le direttrici alla base dello sviluppo e della costruzione dell’identità che sembrano rimanere radicalmente le stesse, gli stessi bisogni affettivi, la stessa fame di sguardi, lo stesso imperioso bisogno di riconoscimento.

Ma lì, dove gli adulti non abitano o vi abitano goffamente, è solo il gruppo dei pari a rispondere, con dinamiche non dissimili a quelle che abbiamo sperimentato in epoca predigitale e nella quotidianità. Da punto di vista del vissuto il Cyberbullismo si introduce nelle radici del vissuto della vittima del Bullismo, il Sexting in una forma di derisione e di attacco alla reputazione sociale che è annoverabile, nel vissuto della vittima, ad altre forme di molestie subite, mentre si fanno strada anche configurazioni specifiche, dalla cattura in una infinita navigazione notturna (Vamping) all’angoscia di rimanere senza connessione (Nomofobia) , all’ignorare o essere ignorati in presenza a favore dello smartphone (Phubbing), o alla condivisione acritica di tutto (Oversharing), solo per citarne alcune, che inviano sempre, nella loro essenza, ai vissuti d’ansia, di depressione, o ai problemi legati al narcisismo patologico. La cornice forse è cambiata, certamente non gli effetti sul mondo emotivo; e il soggetto soffre, pesantemente, sempre allo stesso modo, fino alle conseguenze estreme. Solo che l’insulto e la ferita sono diventate più facili e la platea, per quanto sempre più anonima, insopportabilmente universale.

Anche la spinta a trovare risposte affettive non cambia, ma in gran parte, sottratta come è alla presenza fisica, è lanciata in luoghi nuovi, caratterizzati da una aumentata aleatorietà dell’esito.
Il gruppo dei pari sembra purtroppo più orientato ad agire e amplificare queste situazioni che a farsi carico della sofferenza, a parteggiare per conformismo con il carnefice piuttosto che con la vittima.

Possiamo prendere come esempio una situazione che si è sempre presentata più o meno direttamente all’esperienza degli educatori. Quante volte abbiamo sentito parlare di messaggi che bambini e soprattutto adolescenti lasciano nei temi svolti in classe, dove comunicano un disagio, anche profondo, che evidentemente non può trovar luogo altrove. Quante volte, dopo eventi traumatici come tentati suicidi o altri comportamenti autolesivi, andando a ritroso si trovano tracce evidenti di richieste di ascolto e più o meno esplicitamente di aiuto. Poiché ogni comportamento, in qualunque scenario si manifesti, rimane comunicazione, implica un ascoltatore!

Un messaggio lasciato nello svolgimento di un tema in classe è come se fosse chiuso in una bottiglia lanciata in un laghetto, con discrete probabilità che venga intercettato, se qualcuno sia sull’avviso, stia attento o lo vada a cercare: al confronto un messaggio lasciato nel web è una bottiglia lanciata nell’oceano.

Quanto introvabile? Consapevoli di questo, con una fiducia ben riposta nella potenza delle nuove tecnologie e dell’intelligenza artificiale, vari ricercatori hanno studiato e stanno studiando l’occorrenza di particolari configurazioni di parole chiave utilizzate dagli adolescenti nei social, che risultino predittive di un comportamento autolesionista o suicidario. Non è banale: gli algoritmi non leggono in questo senso parole come “non ce la faccio più”, o “voglio morire”, che possono significare l’esatto contrario, ma configurazioni più complesse che danno indicazioni promettenti sull’individuazione precoce di questi messaggi in bottiglia.

Ma chi sarà a farsene carico, una volta aperta la bottiglia, chi leggerà e si prenderà la responsabilità di questi messaggi, quali agenzie istituzionali saranno attivate e quali saranno in grado di intervenire? Già quelle esistenti scarseggiano in quantità e forse anche in qualità. Ma la domanda vera è se ci sarà da qualche parte un adulto in carne ed ossa, non qualcosa di impersonale, che si prenderà la responsabilità della risposta.

Se i bisogni affettivi rimangono invariati, ancor più rimane la responsabilità di trovare un modo di rispondere. In questa fase di transizione trovare un modo è anche individuare le direttrici sulle quali il futuro mondo adulto nei nuovi contesti, che non riusciamo forse nemmeno ad immaginare, continuerà ad assolvere il suo compito di riconoscere e di restituire una conferma di identità alle sempre più nuove generazioni.

Fin qui, a ben vedere, abbiamo parlato di una dinamica fisiologica, pur in un nuovo ambito. Si tratta sempre di un processo di separazione e individuazione che continua ad esprimersi secondo un percorso normale, un’evoluzione, per quanto accidentata, ancora benigna dell’identità, anche nel nuovo mondo.

Prima o poi, anche nel corso di questi nuovi sentieri, un adulto viene incontrato, e le straordinarie risorse di cui è capace l’adolescente, appena intravista la possibilità di una strada di costruzione dell’identità viaggiano spedite e cariche di creatività. Non possiamo non rilevare le capacità che le nuove generazioni hanno sempre di stupirci, come intelligenza, creatività, generosità, in tantissimi ambiti. L’abitudine a leggere il disagio giovanile ci ha fatto perdere di vista le risorse.

Ma prima di tornare su questo argomento, carico di speranza nella sua accezione più pregnante[33], dobbiamo ancora accompagnare le nuove generazioni ad attraversare altre insidie.

Dal selfie di Dorian Grey[34] al diritto all’oblio di Snowden

«Viviamo in una società paradossale. Da una parte siamo stati colpiti da una sorta di epidemia di narcisismo globale, ossessionati come siamo da noi stessi, dal nostro aspetto, e dal voler apparire a tutti i costi. Dall’altra, siamo sempre più insicuri, fragili ed incapaci di accettare noi stessi. Ma forse questa tendenza non è poi così paradossale. Forse siamo così fragili ed insicuri proprio perché siamo troppo concentrati su noi stessi, ma soprattutto perché ricerchiamo continue conferme all’ esterno, spaventati di guardare dentro di noi e trovare un vuoto siderale».[35]

Il tema del narcisismo è all’ordine del giorno da decenni, ed è stato già affrontato approfonditamente dall’Accademia l’anno scorso con la conferenza “Ricostruire le relazioni: una prospettiva psicoanalitica”.

L ’interesse per il narcisismo, come indica la citazione di Pasolini, da quasi mezzo secolo a questa parte ormai non riguarda più soltanto la diagnosi psicopatologica e la cura psicoterapeutica, ma si estende ai processi sociali, all’epidemia di narcisismo che sembra investire in modo crescente la società occidentale. Narcisismo come dimensione psichica della quotidianità, che prende spazio nel soggetto col crescere di una prospettiva individualistica nell’organizzazione sociale e culturale della nostra civiltà, alla quale, da un altro lato, offre il definitivo via libera il fallimento delle prospettive di tipo collettivistico, imposte per ideologia. Un soggetto bastante a sé stesso, una vita gruppale tagliata fuori dal cosiddetto assunto di base di Meità, fatta di pseudo-socializzazioni dell’Homo Clausus[36], che tale non può essere legato com’è ai suoi simili, al sistema a cui appartiene.

Delle importanti e svariate considerazioni su questo argomento vorrei sottolinearne alcune legate ai pensieri che stiamo svolgendo sul ruolo dell’altro nella costruzione dell’identità.

Il mito dello specchio di Narciso ci dice che di questa patologia si muore, psichicamente: Narciso muore annegato nella sua stessa immagine riflessa nell’acqua. Non amare veramente nessuno, ragione della disavventura, ma anche condanna divina per Narciso, è in realtà l’altra faccia della medaglia dell’innamoramento di sé stessi. L’esito psichico è, più che la morte, la pietrificazione, come è suggerito dal quadro di Dalì le metamorfosi di Narciso. Il rapporto con l’altro da sé devitalizzato consegna parallelamente alla perdita del proprio senso vitale.

Il selfie, metafora potente del narcisismo, il fermo immagine comunicato “così com’ è” al mondo, destituisce il ruolo della storia, del passato e del futuro nell’identificazione del soggetto e lo inchioda ad un fotogramma.

Il fotogramma in cui Dorian Grey immobilizza la propria immagine, la propria identità e la propria vita, mentre a cambiare è il quadro dove si è trasferita la sua parte vera e caduca, segnala la separazione tra un sé ideale (e grandioso) che, attraverso una magia che è anche la sua maledizione, si perpetua nel mondo reale, dove può muoversi in carne ed ossa. Ma se, per i Dorian di oggi, la vita sociale e l’identità sociale si sono trasferite nel mondo virtuale, è là che il sé ideale (e grandioso) trova posto: è nel tempo senza fine e nello spazio sconfinato del web, che l’immagine di sé, che ha finito per riassumere ormai tutto il soggetto, deve rimanere, obbligatoriamente ed in eterno, bella e giovane, disancorata concretamente dal sé terreno, più autentico e caduco.

Nel selfie messo in rete non manca un’idea di condivisione e, per chi possiede un’identità e degli interlocutori, è forse solo un altro modo di viverla, ma per chi è ancora smarrito rimane solo sul piano della ricerca di conferme, di like, e non di un dialogo. È la ricerca di uno sguardo che paradossalmente anziché essere immediato nel vis-à-vis, quindi scrutabile all’interno di quelle faticose negoziazioni tra individui che sono le relazioni, sposta la ricezione del feedback tutto “in differita” e nell’anonimato, o meglio in un insieme imperscrutabile ed indifferenziato, lo sciame digitale[37]. Il paradosso è che a questa ricerca di riscontro immediato corrisponde a un aumento dell’ansia e di quell’inquietudine che si voleva sopire: essere guardati implica la costruzione di un campo comune, una relazione, che in questo spazio rimane inintelligibile.

La conferma o la disconferma, che pure entrano e con forza nella vita vera del soggetto, finiscono per riguardare soltanto la parte immateriale resa disponibile sulla rete, dove anche lo sguardo dell’altro da personale e concreto diventa diffuso, impersonale e dematerializzato.

I rimandi non sono in termini di utile confronto sulle cose, su quello che si fa e che si è, ma solo in termini di popolarità, popolarità come indicatore della quantità ammirazione di cui si è oggetto, e quindi sempre su un registro narcisistico.

La ricerca della perfezione prende il posto dell’autenticità e il risultato di questo ideale mai abbastanza raggiunto, è una triste omologazione dell’immagine di sé, che rende indistinguibili le persone, fino alla perdita della loro identità: è talvolta sconcertante quanto siano sovrapponibili moltissime immagini, soprattutto femminili, nelle foto pubblicate per esempio nei profili Instagram, e quanto si agisca poi direttamente sul corpo concreto per assimilarlo il più possibile a quell’immagine.

L’apprendimento e la crescita vera passano attraverso prove ed errori, la capacità e la possibilità di sopportare il limite e l’imperfezione, il tentativo di migliorare senza la scorciatoia del ritocco d’immagine, attraversando la fase depressiva in cui ci si riconosce carenti. Ma è solo così che si riaccende il desiderio di conquista di nuovi saperi, competenze, abilità, in qualsiasi campo, dallo sport, allo studio, all’impresa, alla politica, alle proprie passioni, di cui moltissimi nelle nuove generazioni danno testimonianza, usando la grande rete senza venirne sopraffatti. Il successo delle iniziative ambientaliste ricondotte a Greta Tumberg rappresenta per esempio una dimensione dell’utilizzo del web come moltiplicatore di una sensibilità e cultura, ma la quotidianità è piena di esempi più o meno clamorosi in cui il soggetto utilizza la rete e i social in modo non narcisistico ma per riconoscersi in un progetto. Segnalo solo per esempio l’utilizzo dei social network per darsi sostegno reciproco, nella quotidianità, ma anche nei gruppi di psicoterapia (come riscontrato nell’esperienza clinica), per costruire reti solidali, per intervenire nella politica, e così via.[38]

L’ attraversamento depressivo della mancanza è faticoso ma è costitutivo della propria immagine di sé, un sentiero narrativo di conquiste, di scacchi e momenti di stallo, anche di casualità: “a volte si vince, a volte si perde, a volte piove”, è un detto noto agli amanti del baseball, dietro l’apparente banalità, molto pregnante.

Ma anche per chi è riuscito a mettersi al riparo dalle sirene dell’identità posticcia, raffigurata nel selfie, la trasposizione dell’immagine di sé nella rete comporta insidie non indifferenti.
Il proprio percorso per prove ed errori, nel momento in cui si trova sul palcoscenico del WEB diventa patrimonio universalmente disponibile e senza un limite nel tempo. Quei passaggi faticosi che parlano anche dell’umana insufficienza che nell’adolescente si manifestano rapidamente come vergogna, spavalderie messe a difesa della propria fragilità[39], uscite incontrollate e sfoghi, normalmente passeggeri, restano fotografati per sempre.

«Un tempo qualsiasi ragazzino poteva dire su internet la cosa più stupida senza doverne rendere conto in futuro. […] Il fatto che internet in origine permettesse dissociarsi da sé stessi incoraggiava me e quelli della mia generazione a cambiare le nostre opinioni, anche quelle che avevo sostenuto con più convinzione, invece che continuare a difenderle quando venivano messe in discussione. La possibilità di reinventarsi ci permetteva di non chiuderci nelle nostre posizioni per paura di arrecare danni alla reputazione. Gli errori venivano puniti e immediatamente corretti. E questo permetteva a tutta la comunità di avanzare….».

È una riflessione autobiografica di Edward Snowden, noto per aver trafugato i files della NSA (National Security Agency) dove lavorava come esperto informatico, documenti che dimostravano un progetto di controllo capillare da parte delle Agenzie di intelligence governative sulla vita di ogni singolo cittadino degli USA e di molte altre parti del mondo. Snowden, sottolinea come la reputazione giochi un ruolo centrale nella possibilità di sperimentarsi come individui nella ricerca dell’identità e come, negli anni ’90, sia stata scientemente messa in connessione, per fini commerciali e di controllo, la vita reale con quella virtuale delle persone, mondi rimasti slegati fino ad allora.
Così, da adolescente aveva lasciato in Internet tracce di tutti i tipi, e da giovane adulto, al momento della ricerca del lavoro, si rilegge e si scopre completamente cambiato…. «Non ero più quella persona […] Avrei voluto mettermi a discutere con quel fantasma, con quella stupida puerile ed involontariamente crudele versione di me stesso che ora non esisteva più. Non sopportavo l’idea di essere perseguitato per sempre da quell’altro me. È un problema in cui tutti quelli della mia generazione potrebbero riconoscersi, il primo vero problema di essere cresciuti on-line».

Un passaggio molto confortante per il nostro discorso, che è anche una indicazione su come ribellarsi al condizionamento mortifero della popolarità, è quello successivo; Snowden, da hacker consumato, ha la possibilità di cancellare facilmente le tracce di sé più sgradevoli, ma non lo fa: «Mi sembrava sbagliato. Eliminare i post non era illegale […] avrebbe solo rafforzato una delle norme più spietate che regolano la vita on-line: il fatto che nessuno può permettersi di sbagliare e se accade ne risponderà per tutta la vita. Non volevo vivere in un mondo dove tutti dovevano fare finta di essere perfetti [...] cancellare quei commenti significava cancellare chi ero, da dove venivo e dove sarei arrivato. Negare la persona che ero stato voleva dire negare la persona che ero diventato».[40]

Se la narrazione di sé coincide con la nostra identità, come abbiamo visto all’inizio, non possiamo privarcene senza perdere noi stessi, e se è fatta anche di avventure ed eventi che sentiamo poco presentabili, non possiamo manipolarle o negarle senza perdere una parte essenziale di noi. La nostra identità è tanto più forte quanto più riesce a fare i conti con le trascorse difficoltà, una capacità che deriva soprattutto dalla possibilità di rispecchiarsi in uno sguardo capace di riconoscerci, con verità e indulgenza, dissenso ed affetto.

Perché se la formazione dell’identità è minacciata quando, nei momenti cruciali dello sviluppo, la nostra esistenza non trova uno sguardo capace di interesse autentico e partecipazione spontanea […] l’identità è ritrovata ogni volta «che si è visti e riconosciuti, una condizione che permette di sentirsi vivi ed esistenti, non invisibili»[41].

Reggi la corsa del tuo meglio

Mai come in adolescenza le energie hanno bisogno di trovare un terreno di espressione dove l’identità si riconosce attraverso azioni e prodotti tangibili.
Leggere la transizione adolescenziale con le lenti della psicopatologia, della criminologia, del disagio sociale, della ineducabilità, o solo più superficialmente del giudizio sommario e un po’ qualunquista dato sull’adolescente come un poco di buono, mammone o buono a nulla, ha due rischi. Il primo è che si tratterebbe senz’altro di una lettura sbagliata o quanto meno molto parziale. Il secondo è che questo tipo di sguardi “definitori” hanno davvero un potere identificante e rischiano di essere assunti come puntello dell’identità ancora vacillante: al “non essere visti per nulla” diventa alla fine preferibile, e magari rivendicabile orgogliosamente, essere riconosciuti come delinquenti, drogati, fannulloni, parassiti incapaci di iniziativa.

Un presupposto implicito di incapacità e passività ha orientato spesso la cultura e la costruzione stessa dei servizi per l’adolescenza, rimasti, tutt’ora, nel limbo delle competenze tra servizi pediatrici e servizi per adulti, dove è stato messo- fortemente l’accento sulla necessità di “fare per loro” più che “coinvolgerli in”.

Fa pensare che nella Prima Conferenza Nazionale per la Promozione della Salute, nel 2000, sia la voce di un oncologo, l’allora Ministro della Sanità Umberto Veronesi, ad elencare un decalogo per la salute futura nel nostro paese includendo come primo comandamento “aiutare i giovani a progettarsi la vita”, e come settimo “rendere i giovani protagonisti nella musica, nello sport e nella cultura”. Tralasciando l’influenza della possibilità e capacità di governare la propria vita sugli esiti in termini di salute fisica e psichica, peraltro dimostrata, va ripreso qui l’elemento della progettualità e dell’orientamento verso il futuro come elementi irrinunciabili dell’identità personale, introdotto all’inizio. Si tratta di un processo psichico e sociale insieme, che include la necessità di una concretezza in cui riconoscersi, in attesa di integrare la propria identità personale anche in uno o nei molteplici ruoli sociali presenti e futuri, quello lavorativo in primis, inteso come contributo costruttivo ed organizzato alla vita comunitaria.

Il tema dell’identità lavorativa apre una serie di questioni molto complesse, innanzitutto sul versante sociale, per il peso delle condizioni di partenza e l’odierno progressivo allargamento del solco delle disuguaglianze. Rimanendo sul versante psicologico il tema dell’identità lavorativa costringe ancora una volta il mondo adulto a ripensarsi, a superare la dimensione dell’assistenzialismo a favore della sussidiarietà, a sostenere senza sostituirsi, a riconoscere la propensione imprenditoriale che nasce dal desiderio, dalla fame di vita, piuttosto che saturare i desideri rispondendo o, peggio ancora, anticipando la soddisfazione dei bisogni.

Una chiamata alla collaborazione dei giovani, che li consideri risorse e non un problema[42], restituisce più riconoscimento e valore di un’offerta di occasioni e di identità, il più delle volte rigettate, trovando invece risposte di una generosità e creatività straordinarie e inaspettate e concretizzando operativamente il nesso caro alla Psicosocioanalisi, tra individuo, gruppo ed istituzione.

Riprendendo un dialogo con Pagliarani, fondatore della Psicosocioanalisi italiana: «La tensione tra individuo, gruppo, istituzione e società è caratterizzata dall’amore “verso l’oggetto”: è proprio quell’amore verso l’oggetto che costituisce la tensione dell’arco che fa scoccare la freccia quell’energia vitale che fertilizza l’agire: “Sì, perché c’entra anche il fare, e il farsi accadere nell’esistere – modello anche politico, il poeta – gli eventi che convergono nella congiunzione di vocazione e destino, sia nel teatro interno che in quello esterno. Per affermare la propria autentica identità, e non d’accatto. Penosa certo da raggiungere perché non è uno stato, una permanenza ma una permanente ri-creazione. Qui casca giusta e carica di significato l’espressione corrente ‘ne vale la pena’».[43]

Fatica e possibilità: i giovani si devono poter dare traguardi, intraprendere sfide identitarie, devono poter faticare e conquistare. Un messaggio che richiede da parte dell’adulto contemporaneamente solidità interiore nella presenza ma anche umiltà, sintetizzata magistralmente da una poesia di Primo Levi[44], con l’efficacia che solo un poeta può avere, che può ancora accompagnarci utilmente di generazione in generazione.

Non sgomentarti delle macerie né del lezzo delle discariche/
noi ne abbiamo sgomberate a mani nude/
negli anni in cui avevamo i tuoi anni. /
Reggi la corsa, del tuo meglio./
C’è bisogno di te che sei meno stanco./
Abbiamo pettinato la chioma delle comete, /
decifrato i segreti della genesi,/
calpestato la sabbia della luna,/
costruito Auschwitz e distrutto Hiroshima. /
Sobbarcati perplesso. Non chiamarci maestri

Primo Levi, Ad ora incerta, 1973.

Parole chiave: adolescenti, anoressia, cyberbullismo, gruppo dei pari, identità, narrazione, omosessualità, sguardo.
Keywords: adolescents, anorexia, cyberbullism, homosexuality, identity, look, narration, peer group.

Bibliografia:

  • Baricco, Alessandro, The Game, Torino, Einaudi 2018.
  • Mirabella, Michele, Il selfie di Dorian Grey, Roma, Armando Editore 2017.
  • Morelli Ugo, L’originario e l’originale. Un dialogo con gli scritti scelti di Luigi M. (Gino) Pagliarani, in: Scritti scelti, a cura di D. Forti e F. Natili, Milano, Guerini e associati 2014.
  • Pietropolli Charmet, Gustavo, Fragile e spavaldo. Ritratto dell'adolescente di oggi, Roma-Bari, Laterza 2012.
  • Speri, Leonardo, Il Borgomastro di Norimberga, in: “Gruppi” 1, Milano, Franco Angeli 2000.
  • Speri, Leonardo, Reggi la corsa, del tuo meglio. La Pratica della Bellezza, tra angoscia e progetto, in: Il progetto della bellezza. La progettualità degli individui e delle istituzioni, a cura di F. Natili e M. Tomè, Milano, Guerini e Associati 2006.
  • Winnicott Donald, Gioco e realtà (edizione originale 1971), Roma, Armando Editore 1974.

[1] Il tema è stato occasione di un incontro associativo di Ariele Psicoterapia, di cui il presente testo è anche debitore.

[2] Il testo che segue è stato redatto nelle sue linee principali prima dell’inizio della pandemia, che anche in tema di identità sta provocando i ricercatori di varie discipline a rimettere in discussione il già pensato.

[3] Registrato e descritto tra gli altri nei rapporti del Censis, mondo le cui traiettorie hanno subito un brusco ulteriore scarto, un futuro ancor meno intellegibile post pandemia.

[4] L’ultima legge di respiro risale al 28 agosto 1997, la n. 285 "Disposizione per la promozione di diritti e di opportunità per l'infanzia e l'adolescenza", il P.O.M.I., ultimo e insuperato Progetto Obiettivo Materno Infantile viene redatto subito dopo nel Piano Sanitario Nazionale 1998-2000, e viene adottato nell’aprile del 2000 dalla Conferenza Stato-Regioni

[5] Rimandiamo il lettore ai libri di Alessandro Baricco, I barbari e The Game.

[6] Cambiamento che, obbligato dalla pandemia, ha assunto proporzioni e caratteristiche inimmaginabili.

[7] Wu Ming 4 - Seconda Legge del Memory. https://www.wumingfoundation.com/giap/2016/06/chi-non-ha-futuro-non-ha-memoria-grande-guerra-intruppamento-dei-ricordi-e-diserzioni-necessarie/

[8] Da distinguere dal Puer archetipo di Jung

[9] Ugo Morelli, L’originario e l’originale. Un dialogo con gli scritti scelti di Luigi M. (Gino) Pagliarani, in: Scritti scelti, a cura di D. Forti e F. Natili, Milano, Guerini e associati 2014, p. 484.

[10] Francisco Varela, Il racconto dell’identità, intervista in: “Animazione Sociale”, maggio 1994, 3.

[11] Plutarco, Vita di Teseo, in: Vite Parallele, edizioni varie.

[12] Antonio Damasio: Comprendere la coscienza. Interessante Conferenza disponibile in https://www.ted.com/talks/antonio_damasio_the_quest_to_understand_consciousness/transcript?language=it#t-1103329

[13] F. Varela, cit.

[14] A. Damasio, cit.

[15] F. Varela, cit.

[16] In relazione questa dichiarazione (http://www.euro.who.int/en/media-centre/events/events/2015/10/WHO-European-Ministerial-Conference-on-the-Life-course-Approach-in-the-Context-of-Health-2020/documentation/the-minsk-declaration) ed alle scoperte di cui si sta parlando nel Febbraio di quest’anno è stato approvato dalla Conferenza Stato Regioni un importante documento del Ministero della Salute con le “Linee di indirizzo sui primi 1000 giorni di vita che vanno dal concepimento all’età di due anni”.

[17] Donald Winnicott, Gioco e realtà, 1971.

[18] Povertà educativa aggravata per esempio dal digital divide, enfatizzato dall’isolamento legato alla pandemia.

[19] Per vedere i Video originali di Spitz: https://www.youtube.com/watch?v=VvdOe10vrs4 e https://www.youtube.com/watch?v=02tW5K91_kY.

[20] Per una breve ed efficace presentazione di Tronik: https://www.youtube.com/watch?v=apzXGEbZht0 da cui è tratto il fotogramma in figura. Una simulazione realistica anche in https://www.youtube.com/watch?v=bOR7jId8wYk.

[21] E. Kestemberg, L’identité et l’identification chez les adolescents, in : «La Psychiatrie de l’Enfant», V, 1962.

[22] Marcello Flores, Adolescenza e adolescenti nella recente ricerca storiografica: “Rivista di psicologia analitica”, 37(1988), pp. 127-140.

[23] Si rimanda ai molti scritti di Zygmunt Bauman sull’argomento.

[24] Due percorsi, quello concreto con le sue difficoltà, insuccessi e conquiste e quello solo vantato, costruito senza sostanza e bruciando le tappe che possiamo per esempio vedere descritti nelle due ragazze coprotagoniste nel pluripremiato film American Beuty (1999 scritto da Alan Ball e diretto da Sam Mendes).

[25] Sottoposto a questa lettura diventa paradigmatico a mio parere il film Fuking Amal (1998) diretto da Lukas Moodysson.

[26] Leonardo Speri, Il Borgomastro di Norimberga, in “Gruppi” 1, Milano, Franco Angeli 2000.

[27] In una ricerca degli anni ‘80, venivano esaminati gli studi disponibili sui fattori predittivi della tossicodipendenza. Nessuno era specifico, dal censo, all’istruzione, ad altre caratteristiche sociopsicologiche, lo era invece fortemente il comportamento del gruppo di pari (S. Einstein, The Drug User, New York, Plenum Press, 1983).

[28] Né dà testimonianza tra gli altri il giudice che si occupò della causa di Kaspar, Anselm von Feuerbach, padre del più noto filosofo (cfr. Anselm von Feuerbach, Kaspar Hauser. Un delitto esemplare contro l'anima, Milano, Adelphi 1996).

[29] www.unicef.it/doc/599/convenzione-diritti-infanzia-adolescenza.htm La convenzione, emanata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989, e ratificata dall'Italia il 27 maggio 1991 con la legge n. 176, recita:

Art. 7 Il fanciullo è registrato immediatamente al momento della sua nascita e da allora ha diritto a un nome, ad acquisire una cittadinanza e, nella misura del possibile, a conoscere i suoi genitori e a essere allevato da essi. […]

Art. 8 Gli Stati parti si impegnano a rispettare il diritto del fanciullo a preservare la propria identità, ivi compresa la sua nazionalità, il suo nome e le sue relazioni familiari, così come riconosciute dalla legge, senza ingerenze illegali. Se un fanciullo è illegalmente privato degli elementi costitutivi della sua identità o di alcuni di essi, gli Stati parti devono concedergli adeguata assistenza e protezione affinché la sua identità sia ristabilita il più rapidamente possibile.

[30] “Notes per la psicoanalisi”. La psicoanalisi alla prova del Malessere contemporaneo. Incontro con René Kaës, Napoli 2014.

[31] Tra queste non possiamo non annoverare oggi la pandemia COVID-19 e interrogarci sugli esiti.

[32] E molto probabilmente la pandemia comporterà un’ulteriore accelerazione in questa direzione.

[33] Nel senso riproposto da Massimiliano Valerii con una rilettura di Bloch nel libro La notte di un’epoca (Firenze, Ponte alle grazie, 2019).

[34] Il selfie di Dorian Grey è anche il titolo di un libro di Michele Mirabella del 2017 (Roma, Armando Editore).

[35] Pier Paolo Pasolini, Scritti Corsari, 1975.

[36] La definizione è del sociologo Norbert Elias, alla quale contrappone l’idea dell’Homo Apertus, ripresa dai gruppoanalisti. L’assunto di meità è di Lawrence (cfr. Joshua Lavie, “Uomo aperto”,“Homo clausus”e il “quinto assunto di base”, Funzione Gamma, 19)

[37] La definizione è del filosofo Han Byung-Chul, in: Nello sciame. Visioni del digitale, Milano, ed. Nottetempo 2015.

[38] Dimensione enfatizzata dall’obbligo odierno del distanziamento sociale

[39] Da un titolo di Gustavo Pietropolli Charmet, Fragile e Spavaldo. Ritratto dell'adolescente di oggi, Roma-Bari, Laterza 2012.

[40] Tutte le citazioni di Edward Snowden sono tratte dal suo libro Errore di Sistema, Milano, Longanesi 2019.

[41] Felice sintesi della psicoanalista Anna Ferruta.

[42] Anche questa configurazione è riattualizzata con la Pandemia, in cui la richiesta prevalente si è orientata all’interdetto, al non fare, nell’incapacità di analizzare invece le possibilità offerte da energie giovani e fortunatamente più risparmiate dalla virulenza del contagio, orientandone l’espressione in sicurezza.

[43] Ugo Morelli, L’originario e l’originale, cit.

[44] Cfr. anche Leonardo Speri, Reggi la corsa, del tuo meglio. La Pratica della Bellezza, tra angoscia e progetto, in: Il progetto della bellezza. La progettualità degli individui e delle istituzioni, a cura di F. Natili e M. Tomè, Milano, Guerini e Associati 2006.