Fratelli Tutti

Fratelli Tutti

d. Giacomo Canobbio

In un mondo lacerato da contrapposizioni e da disuguaglianze ai alza ancora una volta la voce della Chiesa, che nel suo rappresentante più autorevole, Papa Francesco, indica la via per costruire una fraternità universale. A chi ritenesse che la Chiesa dovrebbe occuparsi di Dio e del Vangelo e non di questioni sociali e politiche, il Papa, citando un passaggio dell’enciclica del suo predecessore, Caritas in veritate (29 giugno 2009), fa notare che la «Chiesa ha un ruolo pubblico che non si esaurisce nelle sue attività di assistenza o di educazione, ma che si adopera per la promozione dell’uomo e della fraternità universale» (n. 276).

Sogno romantico quello di giungere a detta fraternità? Non mancano coloro che così pensano, a volte in forma strumentale, per giustificare ideologie e pratiche che mirano a creare steccati tra le persone e tra i popoli. In nome del Vangelo invece non ci si può rassegnare alla situazione che nega l’uguale dignità delle persone e con essa la effettiva libertà. Infatti senza fraternità non si può realizzare né uguaglianza né libertà. Lo afferma a chiare lettere Francesco riprendendo lo slogan della rivoluzione francese “libertà, uguaglianza, fraternità”. Basti riprendere un passaggio centrale dell’enciclica: «La fraternità non è solo il risultato di condizioni di rispetto per le libertà individuali, e nemmeno di una certa regolata equità. Benché queste siano condizioni di possibilità, non bastano perché essa ne derivi come risultato necessario. La fraternità ha qualcosa di positivo da offrire alla libertà e all’uguaglianza. Che cosa accade senza la fraternità consapevolmente coltivata, senza una volontà politica di fraternità, tradotta in un’educazione alla fraternità, al dialogo, alla scoperta della reciprocità e del mutuo arricchimento come valori? Succede che la libertà si restringe, risultando così piuttosto una condizione di solitudine, di pura autonomia per appartenere a qualcuno o a qualcosa, o solo per possedere e godere. Questo non esaurisce affatto la ricchezza della libertà, che è orientata soprattutto all’amore» (n. 103).

Va riconosciuto che nel corso del tempo il termine “fraternità” è stato gradualmente dimenticato e l’uguaglianza è diventata un principio astratto; solo la libertà sembra aver occupato tutto lo spazio, intesa però come affermazione di ogni individuo, senza tener conto dei legami che sono indispensabili per vivere. Si tratta di una deriva di carattere culturale, alimentata da pratiche politiche e orientamenti economici, alla quale il Papa vorrebbe opporre resistenza, condividendo in questo la convinzione che è anche della massima autorità teologica dell’Islam, il Grande Imam Ahmad Al-Tayyed, con il quale il 4 febbraio 2019 Francesco aveva sottoscritto ad Abu Dhabi la Dichiarazione sulla fratellanza universale, più volte citata nell’enciclica, anche per sottolineare che «le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza e allo spargimento di sangue» (n. 285).

Le fonti di ispirazione della visione di Francesco

Già dalle prime parole l’enciclica dichiara da dove trae ispirazione: Fratelli tutti è espressione tolta dalle Ammonizioni di San Francesco, come era tolta dal Santo di Assisi l’espressione di apertura della precedente enciclica, Laudato si’. Papa Bergoglio mostra così che il nome Francesco, che si è dato come Pontefice, diventa programmatico della sua visione della realtà e del cammino che l’umanità, anche con l’aiuto della Chiesa e delle religioni, deve compiere per corrispondere alla volontà di Dio. Quasi a modo di inclusione, il riferimento a Francesco ritorna alla fine del lungo testo, pieno di citazioni di precedenti interventi – è quasi un’antologia – dove si richiama la fonte a cui ha attinto soprattutto: «In questo spazio di riflessione sulla fraternità universale, mi sono sentito motivato specialmente da San Francesco d’Assisi» (n. 286). Come in sovrimpressione vi è però un’altra fonte, la parabola del buon Samaritano, alla quale più volte il Papa si richiama nei suoi insegnamenti e al cui commento dedica interamente il secondo capitolo dell’attuale enciclica. L’attenzione a questa parabola è per «per cercare una luce in mezzo a ciò che stiamo vivendo» (n. 56). Da essa si ricava una indicazione fondamentale: «far risorgere la nostra vocazione di cittadini del nostro Paese e del mondo intero, costruttori di un nuovo legame sociale» (n. 66), che coincide con non lasciare che qualcuno rimanga ai margini della vita. Si tratta di una sfida, che non può non essere accettata. Passare a distanza di chi soffre, ripiegandoci su noi stessi, disinteressandoci degli altri, restando indifferenti, non corrisponde alla volontà di Dio. Questa infatti non consiste nel dedicarsi a un culto che non stimoli ad aprire il cuore ai fratelli; è piuttosto un impegno a includere, integrare, risollevare chi è caduto (cfr. n. 77); tutto ciò insieme, incominciando dal basso. Accorato l’appello di Papa Francesco: «Cerchiamo gli altri e facciamoci carico della realtà che ci spetta, senza temere il dolore o l’impotenza, perché lì c’è tutto il bene che Dio ha seminato nel cuore dell’essere umano» (n. 78), consapevoli di avere una responsabilità nei confronti sia delle singole persone sia dei popoli che sono feriti, «dando alla nostra capacità di amare una dimensione universale, in grado di superare tutti i pregiudizi, tutte le barriere storiche o culturali, tutti gli interessi meschini» (n. 83). Se questo vale per tutti, per i cristiani le parole di Gesù hanno un’ulteriore dimensione: in ogni fratello abbandonato o escluso si deve riconoscere Cristo stesso, come si legge in Mt 25,40.45, il testo del giudizio.

Pensare e generare un mondo aperto

Il mondo nel quale siamo immersi è dominato da forze mortifere: la lettura che Francesco propone nel primo capitolo dell’enciclica non potrebbe essere più impietosa. Viviamo in un mondo chiuso, nel quale il sogno di un’umanità fraterna e solidale è andato in frantumi. Nel linguaggio abituale non manca certamente l’invito ad aprirsi al mondo, ma con tale espressione ci «si riferisce esclusivamente all’apertura agli interessi stranieri o alla libertà dei poteri economici di investire senza vincoli né complicazioni in tutti i Paesi» (n. 12). La globalizzazione ha reso le persone e i popoli più vicini, ma non li ha resi fratelli, perché ha generato perdita del senso della storia, nuove forme di colonizzazione culturale, svuotamento anche delle grandi parole, politiche da marketing, nuove forme di razzismo, di povertà, di ingiustizia, erezione di barriere tra nazioni e popoli, indebolimento del senso di appartenenza alla medesima umanità, aggressività alimentata dai social, smarrimento del senso della verità, difficoltà a dialogare, disprezzo delle identità culturali proprie e altrui. Un quadro fosco, che potrebbe far nascere pessimismo. Per il Papa si tratta invece di una opportunità per fare spazio a un’audace speranza, capace di «guardare oltre la comodità personale, le piccole sicurezze e compensazioni che restringono l’orizzonte» (n. 55), come aveva detto ai giovani nel viaggio a Cuba il 20 settembre 2015.

Generare un mondo aperto è il nuovo modo di descrivere l’amore. Questo infatti consiste nell’aprirsi agli altri, nell’accogliere tutti, nella consapevolezza che solo in questo modo ciascuno, sia singola persona o popolo, cresce e si completa. L’idea di accogliere tutti attraversa l’intera enciclica e comporta il riconoscimento della uguale dignità di tutte le persone umane, oltre che del limite di ogni persona, popolo o regione: nessuno può pensare di realizzare se stesso chiudendosi nella propria cultura, nei propri interessi, nei propri confini. Si potrebbe dire che un amore accogliente è anche a vantaggio di chi lo mette in atto: ogni apertura agli altri manifesta e accresce la propria identità di cattolici. In questa visione, gli altri, siano essi stranieri, migranti, anziani, donne, non sono più estranei, bensì fratelli da soccorrere o dai quali ricevere ricchezze a volte impensate. Occorre pertanto sconfiggere il virus dell’individualismo (cfr. n. 105) e sentirsi responsabili della costruzione di una società fraterna, «in grado di adoperarsi per assicurare in modo efficiente e stabile che tutti siano accompagnati nel percorso della loro vita, non solo per provvedere ai bisogni primari, ma perché possano dare il meglio di sé, anche se il loro rendimento non sarà il migliore, anche se andranno lentamente, anche se lo loro efficienza sarà poco rilevante» (n. 110). A questo scopo si dovrà anche riprendere la tradizionale dottrina della Chiesa circa la proprietà privata. I beni della terra sono di tutti e devono servire al bene di tutti. Sicché «Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società (n. 120). Ciò va ribadito perché accade «frequentemente che i diritti secondari si pongono al di sopra di quelli prioritari e originari, privandoli di rilevanza pratica» (ivi). Da qui deriva la necessità di garantire a tutti, singole persone o popoli, il necessario per il suo sviluppo, attuando una responsabilità solidale. Le forme di realizzazione di questa possono variare. Il Papa ne elenca alcune facendo riferimento ad alcune pratiche che conducano al superamento delle sperequazioni: «Se ogni persona ha una dignità inalienabile, se ogni essere umano è mio fratello o mia sorella, e se veramente il mondo è di tutti, non importa se qualcuno è nato qui o se vive fuori dai confini del proprio Paese. Anche la mia Nazione è corresponsabile del suo sviluppo, benché possa adempiere questa responsabilità in diversi modi: accogliendolo generosamente quando ne abbia un bisogno inderogabile, promuovendolo nella sua stessa terra, non usufruendo né svuotando di risorse naturali Paesi interi favorendo sistemi corrotti che impediscono lo sviluppo degno dei popoli. Questo, che vale per le nazioni, si applica alle diverse regioni di ogni Paese, tra le quali si verificano spesso gravi sperequazioni. Ma l’incapacità di riconoscere l’uguale dignità umana a volte fa sì che le regioni più sviluppate di certi Paesi aspirino a liberarsi della “zavorra” delle regioni più povere per aumentare ancora di più il loro livello di consumo» (n. 125). L’esito cui si tende è ravvisabile nella figura geometrica del poliedro, nella quale l’identità di ciascuna persona, gruppo umano, popolo, entra a comporre una «nuova bellezza grazie a successive sintesi che si producono tra culture aperte, fuori da ogni imposizione culturale» (n. 149).

Per una nuova politica

La condizione attuale del mondo è determinata anche da pratiche politiche che alimentano chiusure. La via per superare sia i populismi sia i liberalismi è assumere la nozione di popolo. A chi conosce un po’ la teologia argentina non sfugge che Papa Francesco è debitore a questa nel capitolo quinto dell’enciclica nel quale propone di assumere la categoria di “popolo” per realizzare il sogno di un’umanità fraterna. Infatti, «un popolo vivo, dinamico e con un futuro è quello che rimane costantemente aperto a nuove sintesi assumendo in sé ciò che è diverso. Non lo fa negando sé stesso, ma piuttosto con la disposizione ad essere messo in movimento e in discussione, ad essere allargato, arricchito da altri, e in tal modo può evolversi» (n. 160).

In quest’ambito riconosce anche il valore dei “movimenti popolari” «che aggregano disoccupati, lavoratori precari e informali e tanti altri che non rientrano facilmente nei canali già stabiliti. In realtà, essi danno vita a varie forme di economia popolare e di produzione comunitaria» (n. 169). Questi «sono “poeti sociali”, che a modo loro lavorano, propongono, promuovono e liberano. Con essi sarà possibile uno sviluppo umano integrale, che richiede di superare “quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli”». Si deve quindi «riconoscere che senza di loro “la democrazia si atrofizza, diventa un nominalismo, una formalità, perde rappresentatività, va disincarnandosi perché lascia fuori il popolo nella sua lotta quotidiana per la dignità, nella costruzione del suo destino”» (n. 169).

Per arrivare a svolgere il suo compito, la politica non può però lasciarsi soggiogare dall’economia come è attualmente organizzata. Deve piuttosto tornare a interpretarsi come esercizio alto di carità. Infatti «Riconoscere ogni essere umano come un fratello o una sorella e ricercare un’amicizia sociale che includa tutti non sono mere utopie. Esigono la decisione e la capacità di trovare i percorsi efficaci che ne assicurino la reale possibilità. Qualunque impegno in tale direzione diventa un esercizio alto della carità. Perché un individuo può aiutare una persona bisognosa, ma quando si unisce ad altri per dare vita a processi sociali di fraternità e di giustizia per tutti, entra nel “campo della più vasta carità, della carità politica”. Si tratta di progredire verso un ordine sociale e politico la cui anima sia la carità sociale. Ancora una volta invito a rivalutare la politica, che “è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune”» (n. 180).

Lo stile dialogico

Per costruire un’umanità fraterna si richiede il dialogo, che significa «la capacità di dare e ricevere, rimanendo aperti alla verità» (n. 199), «la capacità di rispettare il punto di vista dell’altro, accettando la possibilità che contenga delle convinzioni o degli interessi legittimi» (n. 203). Obiettivo del dialogo è «anzitutto la ricerca dei fondamenti più solidi che stanno alla base delle nostre scelte e delle nostre leggi. Questo implica accettare che l’intelligenza umana può andare oltre le convenienze del momento e cogliere alcune verità che non mutano, che erano verità prima di noi e lo saranno sempre. Indagando sulla natura umana, la ragione scopre valori che sono universali, perché da essa derivano» (n. 208). A scoprire questi valori universali permanenti, tra i quali al primo posto sta la uguale dignità di tutti gli esseri umani, si giunge attraverso una ricerca sincera e aperta, fatta di ascolto reciproco, ma nella consapevolezza che la verità non è il risultato di un consenso contrattuale, ma sta prima di questo ed eventualmente lo fonda. Nella ricerca si dovrà anzitutto dare credito a ciascuno dei dialoganti e alle loro rispettive culture. L’imperialismo culturale, che porta a non valorizzare le tradizioni dei popoli originari, a cancellarne l’habitat, non permetterà di giungere a un’umanità fraterna.

Ovvio che il percorso per raggiungere questa meta non è facile e si dovrà mettere in conto anche qualche passaggio conflittuale. Per questo appare necessaria la capacità di negoziare, una specie di “artigianato” della pace, di favorire la cultura dell’incontro. Questa «esige di porre al centro di ogni azione politica, sociale ed economica la persona umana, la sua altissima dignità, e il rispetto del bene comune» (n. 232), superando ogni forma di violenza.

In questo percorso si inserisce anche il perdono, al quale Francesco presta un’attenzione particolare, mostrando però che esso non è facile. Infatti «perdonare non vuol dire permettere che [i colpevoli, gli oppressori] continuino a calpestare la dignità propria e altrui, o lasciare che un criminale continui a delinquere. Chi patisce ingiustizia deve difendere con forza i diritti suoi e della sua famiglia, proprio perché deve custodire la dignità che gli è stata data, una dignità che Dio ama. Se un delinquente ha fatto del male a me o a uno dei miei cari, nulla mi vieta di esigere giustizia e di adoperarmi affinché quella persona – o qualunque altra – non mi danneggi di nuovo né faccia lo stesso contro altri. Mi spetta farlo, e il perdono non solo non annulla questa necessità bensì la richiede» (n. 241). Se il perdono significasse cancellare, anche dalla memoria, il male che è stato compiuto, si commetterebbe una grave ingiustizia. Il Papa insiste con accorati accenti sulla necessità di non dimenticare la Shoah, Hiroshima, Nagasaki, «le persecuzioni, il traffico di schiavi e i massacri etnici e tanti fatti storici che ci fanno vergognare di essere umani» (n. 248). Sorge pertanto la domanda: se non si dimentica, che cosa significa perdonare? Significa rinunciare ad essere dominati dalla stessa forza distruttiva che ha compiuto il male (cfr. n. 251). Infatti «Il perdono è proprio quello che permette di cercare la giustizia senza cadere nel circolo vizioso della vendetta né nell’ingiustizia di dimenticare» (n. 252). In questa prospettiva si deve affermare che né la guerra né la pena di morte servono a risolvere i conflitti e a difendere dal male la società. Se nel passato si era ritenuto che ci fossero guerre giuste e che la pena di morte fosse strumento utile per la convivenza umana, oggi si è giunti alla convinzione che si tratta di strumenti che provocano danni peggiori di quelli che si vorrebbero riparare.

Conclusione

Carica di audace speranza anche questa nuova enciclica di Papa Francesco. A qualcuno è sembrata poco cristiana per due ragioni fondamentali: i riferimenti a Gesù Cristo sarebbero scarsi; chiamerebbe anche i non cristiani, in particolare i musulmani, a condividere un itinerario di fraternità universale. Alle osservazioni critiche si può rispondere che la parabola del buon Samaritano, alla quale è dedicato tutto il secondo capitolo, è il principio ispiratore di tutta l’enciclica, e non si può dimenticare che questo personaggio non è altro che la raffigurazione di Gesù Cristo. Inoltre che la dignità di tutte le persone umane come creature di Dio è convinzione comune a cristiani e musulmani. Infine che il cammino verso un’umanità fraterna si compie insieme oppure è destinato al fallimento. Del resto, San Francesco, al quale si attinge per il titolo e per l’ispirazione dell’enciclica, fu il Santo dell’amore fraterno (cfr. n. 2), che ha osato far visita al Sultano non per imporre dottrine, bensì per comunicare l’amore di Dio, perché aveva compreso che «Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1Gv 4,16); in vista di questo obiettivo «si liberò da ogni desiderio di dominio sugli altri, si fece uno degli ultimi e cercò di vivere in armonia con tutti» (n. 4). L’enciclica non pretende di riassumere la dottrina sull’amore fraterno. Vuole soltanto essere «un umile apporto alla riflessione affinché, di fronte a diversi modi attuali di eliminare o ignorare gli altri, siamo in grado di reagire con un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale che non si limiti alle parole» (n. 6). E la riflessione, pur essendo scritta a partire dalle convinzione cristiane, vuole essere aperta al dialogo con tutte le persone di buona volontà. Chi non cogliesse questo obiettivo e lo stile dialogico necessario per raggiungerlo dovrebbe domandarsi che tipo di umanità vorrebbe costruire.

d. Giacomo Canobbio