Soli di fronte alla morte?

Soli di fronte alla morte?

Tutto ridotto in polvere? In queste settimane ha sconvolto tutti l’abbandono del malato in solitudine. I parenti, prima dell’ingresso nel triage, lo salutavano senza sapere se l’avrebbero più rivisto. Quello entrava e, dopo qualche ora o qualche giorno, usciva una bara, talvolta destinata a un crematorio lontano centinaia di chilometri. Nessuna possibilità di accompagnamento al passaggio finale se non quella del personale sanitario, sopraffatto dal lavoro estenuante e dai sentimenti più contrastanti. Dopo qualche giorno, tornava una piccola urna di cenere: lì era ridotta tutta una storia di affetti e di progetti, di speranze e di illusioni?

I giornali ci hanno raccontato la vita di persone che, attraverso imprese eccezionali o piccole azioni quotidiane, hanno realizzato qualcosa di unico. Tutto ridotto in polvere? Un tempo, agli inizi della quaresima, la Chiesa ci ammoniva: «Ricordati, uomo, che sei polvere e in polvere ritornerai». Era un monito alla vanità di quanto costruiamo. «Tutto è fumo», ripete Qohelet. Il salmo 90 ci paragona al fiore che «al mattino fiorisce e ricresce e a sera avvizzisce e muore». Così Dio fa ritornare l’uomo «alla sua polvere». Se ci si rende conto di questa realtà, si diventa sapienti e si impara a «contare» i propri giorni. Forse nel fremito della nostra civiltà, proiettata sempre più verso mete ambiziose, ci eravamo dimenticati di quella sapienza che stava alle origini del nostro umanesimo. Il poeta greco Pindaro nell’esaltare in una sua lirica il lottatore Aristomene d’Egina, giovane atleta che aveva già vinto sei volte, lo metteva in guardia dall’orgoglio, dicendo che «l’uomo è sogno d’ombra» (Pyth. 8). Se i suoi sogni svaniscono come ombra, sono stati inutili? Dobbiamo abbatterci? Questo non è il messaggio né dei passi biblici, né della sapienza greca. Se la vita è effimera, i nostri sogni si devono fondare su qualcosa di più stabile. Ai nostri tempi la morte è stata sempre più rimossa dal nostro orizzonte e, nello stesso tempo, si sono fatti più volatili anche i valori della vita. Già nel 1915 Freud vedeva nelle stragi che si stavano moltiplicando in Europa un drammatico richiamo a ciò che l’uomo «civile» evita «accuratamente» di prendere in considerazione, ossia la realtà della morte (Considerazioni attuali sulla guerra e la morte). La sua inesorabilità non viene scongiurata se la si ignora.

La morte avrà i tuoi occhi. La famosa poesia di Cesare Pavese parlando della morte, che avrà i nostri occhi e «che ci accompagna sempre dal mattino alla sera, insonne», ci riporta, al di là della sua vicenda personale, a una situazione esistenziale. La morte non è solo l’attimo finale, quello che, secondo Epicuro, ci impedirà di incontrarla perché, finché saremo in vita, lei non ci sarà, e quando lei arriverà, noi non saremo più. Essa è già presente in noi e ci si fa sentire in ogni battito del cuore, in ogni nostro passo che è un trascorrere, un abbandonare qualcosa, un perdere parte di noi. La morte è sì un fenomeno naturale, un fatto relativo dovuto alle leggi fisiche, al mutare di ogni cosa. Tuttavia per la persona è qualcosa di assoluto. Se ci si rende conto di ciò, ci si avvia, secondo il filosofo Martin Heidegger, verso un’esistenza autentica, non dettata dalle chiacchiere e dalle convenzioni, ma scaturita dall’interno.

Solitudine o compartecipazione? Per Heidegger l’autenticità, resa possibile dalla morte, si gioca nella solitudine con sé stessi: «Tutte le altre possibilità pongono l’uomo in mezzo alle cose o fra gli altri uomini; la possibilità della morte isola l’uomo con se stesso. È una possibilità insormontabile in quanto l’estrema possibilità dell’esistenza è la sua rinuncia a se stessa» (Essere e tempo, § 50). La solitudine appare come la condizione per ritrovare entro se stessi la relazione con l’assoluto, per capire che si sta rischiando tutto. Ogni persona è unica. La morte lo rivela. Il vuoto che essa lascia non può essere colmato da altri. Nelle autentiche relazioni personali non c’è sostituzione. I drammi di queste settimane ce lo dimostrano. Se nel momento supremo l’uomo è sempre solo, tuttavia desidera anche un volto, uno sguardo, una mano. Il discepolo di Heidegger, Karl Löwith, ha obiettato al suo maestro che occorreva non dimenticare il bisogno di comunione. Nella morte l’uomo condivide il destino di tutti, quindi vive un’esperienza, più o meno consapevole, di compartecipazione. Negli istanti più decisivi, quando per l’ultima volta si incrociano gli sguardi, l’incontro va al di là di ogni parola. Se l’assoluto comporta una relazione, non può trasformare la solitudine nella chiusura su di sé. Alessandro Manzoni ha concluso la sua lirica sulla morte di Napoleone mettendogli accanto, nell’esilio della piccola e sperduta isola, «il Dio che atterra e suscita». Neppure i tanti morti di queste settimane sono stati soli.

Il lutto. Fin dalle origini della nostra civiltà si è avvertita l’esigenza di accompagnare i morti nell’ultimo viaggio, immaginato più o meno lungo, più o meno scuro. La loro cura è stata una preoccupazione dominante fin dai primi poemi. Il vecchio re Priamo si abbassa a implorare il nemico Achille perché gli sia restituito il corpo del figlio Ettore. L’onore dei morti doveva superare ogni divisione fra amici e nemici. Nell’Antigone di Sofocle esso è al di sopra delle leggi dello stato e porta in una sfera in cui i poteri civili non contano. Nel riconoscimento di questa dimensione l’uomo afferma la sua dignità che sfugge all’arbitrio e alla manipolazione. Nello stesso tempo ribadisce la sua comunione con chi è dipartito. Le cerimonie che nel corso dei secoli si sono stabilite hanno avuto questo scopo. Chi rimane è spesso assillato dal timore di non aver fatto tutto quello che era in suo potere per la persona cara. Del resto chi è senza difetti? Quante volte si tralascia un grazie per pudore, per negligenza o per distrazione! Quando poi si vorrebbe rimediare, è troppo tardi. Con l’accompagnamento funebre si cerca una specie di compensazione o di riconciliazione finale. Chi crede, si rivolge all’Assoluto perché intervenga a colmare le manchevolezze. Gli psicologi parlano di elaborazione del lutto, un’espressione non troppo felice, che allude a un processo lento e progressivo, in alcuni casi interminabile. Il corona-virus ha impedito la gradualità e reso ardua la compartecipazione. Ha reso impossibili molti riti. Le storie raccontate sui giornali, le benedizioni ai cimiteri hanno in qualche modo cercato di supplire. Negli animi rimarranno molti vuoti. Forse saranno brecce capaci di aprirsi alla luce. Forse questa esperienza collettiva potrà far riscoprire i valori dell’umanità che spesso diamo per scontati. Importante è che il senso di riconciliazione prevalga sui sensi di colpa e sul desiderio di rivalsa.