La morte di Dio e dell' uomo nell' arte.

La morte di Dio e dell' uomo nell' arte.

Estetica All'Accademia cattolica confronto sulla pittura contemporanea

Tra XX e XXI secolo come è cambiata la percezione dell'umano nell'arte pittorica? Ovvero, tra il secolo delle avanguardie e quello del postmoderno? Se nel primo, il movimento pittorico ha significato una radicale astrazione da ogni rappresentazione naturalistica dell'immagine dell'uomo — basti il rimando a un quadro di Kandinskij o di Klee — perché problematica è divenuta l'identità stessa dell'umano, nel post-moderno assistiamo al ritorno del figurativo. Ma è una parvenza di riaffermazione dell'immagine naturalistica dell'uomo: il volto appare come storpiato e stravolto da un dolore quasi animale.

Un quadro di Francis Bacon ne è la cristallina esemplificazione. Tanto nelle avanguardie quanto nel post-moderno — dove una pluralità di correnti artistiche, anche in contraddizione tra di loro, convivono — ad essere messa in discussione è una raffigurazione ingenua dell'immagine umana. Come se ogni artista, più o meno consapevolmente, abbia dovuto e debba prender sul serio il divieto biblico di farsi immagini del divino. Un divieto divenuto ancor più stringente: il divieto vale anche per colui che è stato fatto ad immagine e somiglianza di Dio, l'uomo. Che si chiami alienazione o massificazione:
la modernità, e il suo compimento nel post-moderno, è stata una radicale messa in questione dell'essenza umana. Quasi che l'arte, in forma indiretta e mai per banale rispecchiamento, abbia registrato questa epocale crisi della soggettività, sancita a livello filosofico dai maestri del sospetto: Marx, Nietzsche Freud. Non sta qui il significato metafisico della astrazione pittorica? L'arte contemporanea è la certificazione di una doppia morte: di Dio e dell'uomo. Una certificazione paradossale: a Dio e all'uomo si nega una immediata evidenza proprio perché si spera — ed è una speranza muta — che di essi si possa trovare traccia nelle macerie di senso dell'esistenza. Questa è la questione dell' umanesimo nel fare artistico: approssimarsi al divino e all' umano per negazione. Quasi che ogni artista sia di fatto e di diritto un «teologo negativo»: dell'Altro — dell'Assoluto — si può parlare solo attraverso sottrazioni, d'immagine e di colore. Una pulsione iconoclastica — propria di buona parte dell'estetica novecentesca —che fa tutt'uno con la tensione metafisica dell'arte in quanto tale. Essendo ogni opera d'arte una «finalità senza scopo», il fatto stesso di esistere è contrapporsi alla legge di movimento del mondo così com'è. Un movimento che risponde alla legge economica del realizzare scopi tecnici, immediatamente utili. Ogni opera d'arte è forse, lo osservava Adorno, un modo per ripetere, con caparbietà, la domanda filosofica e teologica per eccellenza: «È questo tutto?». Apparendo, quasi fosse un miracolo inaspettato, l'opera d'arte formula questa domanda. Ma proprio apparendo, l'opera d'arte smentisce che l'esistenza empirica esaurisca il senso della vita. In ciò è teologica l'arte: nega che il presente sia l'Assoluto. Una speranza — lo notava sempre Adorno — diventata sempre più sconsolata disperazione. Ecco perché ogni oggetto può diventare materiale di costruzione di un manufatto artistico: se nelle avanguardie poteva essere l'orinatoio di Duchamp, oggi può essere una sacco di iuta o anche un sasso. La redenzione è a tal punto urgente — questa sembra dire ogni artista autentico — che l'irruzione dei materiali più poveri significa che solo l'«apocatastasi» salverà il mondo. Apocatastasi come reintegrazione — risarcimento, restaurazione — del tutto. Proprio quando appare irreligiosa l'arte è più che mai teologicamente ortodossa: fedele a Dio e all'uomo, nella abissale distanza della sofferenza irredenta. Si badi: non la bellezza, ingenuamente intesa, salverà il mondo, ma forse — ed è un forse carico d'angoscia e di disincanto — l'arte più riflessiva.