Resoconto lectio prof Silvio Ferrari

Resoconto lectio prof Silvio Ferrari

RELIGIONE E CONVIVENZA CIVILE NELL’EBRAISMO, NEL CRISTIANESIMO, NELL’ISLAM

La relazione del Prof. Silvio Ferrari si è svolta seguendo tre fili conduttori:
1) L’analisi della trasformazione del nostro Paese da una realtà omogenea a una società plurale;
2) L’approfondimento della tradizione giuridica nelle tre religioni monoteiste:
3) La ricaduta di tali tradizioni nella convivenza civile.

Per quanto concerne il primo punto , il relatore ha fatto notare come ci si trovi dinnanzi ad una svolta epocale, ad una sorta di giro di boa nella trasformazione della nostra società, che implica, de facto, la convivenza degli uomini in un pluralismo, religioso, etico e culturale. La globalizzazione ha accorciato i tempi e le distanze consentendo flussi di persone con usi, costumi, appartenenze confessionali che vivono quotidianamente gomito a gomito con noi. Come gestire questa trasformazione? Ferrari è chiaro: «questo processo è irreversibile e va accettato senza nostalgie. Tuttavia esso può contenere dei rischi. Dunque, per dare una risposta a questa condizione storica in cui tutti noi ci troviamo a vivere, occorre saper ascoltare e comprendere le richieste e le esigenze che pongono questi nuovi soggetti». Occorre, insomma, saper interpretare il momento storico in cui si abita, come già il nostro Vescovo, S. E. Luciano Monari, ha anticipato, nel corso della sua prolusione in occasione della cerimonia inaugurale della nostra Accademia, richiamando più volte all’ “aggiornamento” – «una sfida che la Chiesa ha di fronte e che richiede un’ermeneutica del Concilio» – e alla capacità di auto- trascendimento dell’uomo, che è, a ben vedere, un chiaro riferimento all’ermeneutica della fatticità storica del soggetto.

A partire da queste premesse sorge inevitabile l’interrogativo: in che modo queste tre tradizioni hanno immaginato lo spazio pubblico? Quale statuto giuridico e quali diritti i cristiani, gli ebrei, i musulmani riconoscono a coloro che non lo sono, nei loro Paesi? Nel Cristianesimo quando si parla di diritto divino ci si riferisce, da un lato ai principi giuridici che troviamo nei testi sacri – che vanno sotto il nome di diritto rivelato – , dall’altro al diritto naturale, che deriva da Dio, ma attraverso la Creazione. Cosa significa? Il fatto che, nella tradizione giuridica del Cristianesimo, si riconosce che Dio inscrive nella coscienza di ogni uomo la potenziale capacità di discernere il bene dal male, attraverso il corretto uso della propria ragione e del proprio libero arbitrio. Pertanto, mentre il primo vincola soltanto i fedeli, il secondo è estendibile a tutti gli uomini e traducibile in chiave universale. Da ciò ne deriva che “l’infedele”, se così ci si può esprimere, non è da considerare come un barbaro da temere e osteggiare, ma come un uomo che, avendo nel proprio cuore tali diritti di giustizia, può collaborare per costruire una polis autentica. Questo modello, tuttavia, è differente da quello che caratterizza Ebraismo e Islam.

Nell’Ebraismo esiste, accanto al diritto rivelato che affonda le sue radici nelle Sacre Scritture, un complesso di norme che si traduce nei sette principi noachidi o nella Torà dei figli di Noè. Si tratta di quella parte della Torà mosaica (dunque, in quanto tale proveniente da Dio come la legge della rivelazione sinaitica) destinata non soltanto ad Israele, ma all’intera umanità. Di contro ai 316 precetti (mitzwot) riservati al popolo eletto (248 positivi, il numero corrisponde secondo la tradizione a quello delle membra umane e 365 negativi,il numero corrisponde ai giorni dell’anno) i precetti noachidi, secondo Sanhedrin 56 b, sono 6 negativi: non bestemmiare, non essere idolatri, non compiere unioni illecite, non uccidere, non rubare, non cibarsi con un membro di un animale vivo e uno positivo: avere dei giudici. Ciò che è significativo per la nostra indagine è il fatto che, secondo quanto ha affermato il Prof. Ferrari, anche i precetti noachidi sono da ricondurre alla rivelazione divina e non sono classificabili come principi giuridici divini rientranti nel diritto naturale. Interessante in proposito, il commento midrashico a Lv 18, 5

«Donde si deduce che perfino un pagano che osserva la Torà è uguale al sommo sacerdote? Dalle parole: “che se un uomo li metterà in pratica, vivrà per essi”. Similmente è detto: “Questa è la legge del genere umano, o Signore Iddio (2 Sam 7, 19). Non dice: “Questa è la legge dei sacerdoti, o dei leviti, o di Israele”, ma “la legge del genere umano»3 . Nella tradizione islamica, in particolare sunnita, v’è una diversità strutturale: non vi è un’idea di una rivelazione fatta a tutti gli uomini da Dio. L’unica legge considerata “vera” è quella di Allah ed è all’interno di essa che dobbiamo cercare i diritti per i non-musulmani. Pur riconoscendo – anche sulla base di alcuni versi del Corano – agli ebrei e ai cristiani il diritto di vivere nello stato islamico poiché entrambi i monoteismi cui aderiscono si rifanno ad un libro sacro, benché tradito, emerge una evidente subordinazione degli “infedeli” ai musulmani Ora, alla luce di queste tre differenti tradizioni giuridiche quali sono le ricadute che si possono registrare nella convivenza civile? In che modo si può assicurare uno statuto giuridico al non musulmano, al non ebreo, al non cristiano? Come ha fatto ben notare il docente, «a parità di condizioni, la formazione di uno stato laico è , senza dubbio, favorita da una nozione di diritto naturale che abbiamo ritrovato nel Cristianesimo, piuttosto che nel mondo ebraico ed islamico. Lo spazio pubblico, la costruzione della polis si inscrive nell’ambito dello spazio naturale, che fa leva su quella capacità umana di discernere il bene dal male, pur essendo consapevoli che, per richiamare una felice espressione kantiana, l’uomo è un legno storto. Senz’altro, la nozione di diritto naturale del Cristianesimo può non corrispondere con quella accolta dallo stato». Come dire: noi possiamo essere in contrasto con un determinato contenuto del diritto naturale, ma questa contrarietà si deve tradurre, nella scena pubblica, in un linguaggio che può essere compreso e recepito anche da coloro che credono in un altro Dio. È evidente il riferimento alle delicate questioni bioetiche che, mai come oggi, sono tornate al centro di un dibattito acceso, non solo tra gli appartenenti a confessioni religiose diverse, ma anche tra credenti e non credenti. Si pensi, soltanto, all’eutanasia, alla stessa definizione di morte cerebrale, alla fecondazione assistita, al rapporto dell’uomo con la tecnica e, più nello specifico, con le macchine. Significativo l’esempio portato dal Prof. Ferrari: «se mi dichiaro contro l’aborto, devo argomentare la mia contrarierà con tesi che devono essere fondate non tanto su motivazioni che si rifanno al diritto divino rivelato, bensì su motivazioni che rientrano nel diritto naturale: sono contro l’aborto perché vìola i diritti di una persona umana, che è il nascituro. Se questo atteggiamento ha maggiori probabilità di successo nella tradizione del Cristianesimo, lo stesso discorso non può valere per il mondo islamico ed ebraico poiché il diritto divino, in quanto parola che Dio ha pronunciato, entra prima in gioco nella costruzione del sistema che in quella della società civile». Da ciò risulta chiaro che la cosiddetta secolarizzazione del diritto può essere più facilmente accettata nel mondo cristiano, poiché esso non mette in gioco il diritto naturale, mentre è più complessa nel mondo musulmano, in quanto l’esclusione del diritto giuridico rivelato lascerebbe senza difesa, chi volesse costruire una società comune. Infatti, se nello stato laico l’organizzazione della società civile può essere basata sull’uguaglianza dei suoi membri, all’interno di uno stato teocratico, la convivenza della società civile è possibile soltanto in virtù di una separazione confessionale. Come ha osservato il Prof. Ferrari: «la laicità dello stato è parte integrante della nostra identità, questo tuttavia, non ci esime dal dovere di rispondere alle sfide della società contemporanea puntando sulle nostra capacità di far fronte alle problematiche che sottendono». Che cosa si deve intendere per stato laico? «Uno stato – ha anticipato il Prof. Ferrari, facendo da preambolo al prossimo seminario, che sarà incentrato sulla disamina di tali questioni – che non si identifica con una singola confessione, ma che intende includere le religioni nella sfera pubblica. Lo stato neutro, d’altro canto, è una chimera. Uno stato può dirsi autenticamente laico soltanto se è capace di delineare la propria storia intermini di accoglienza». La scommessa consiste nella capacità 3 Sifrà a Lv 18, 5, in A. Cohen, Il Talmud, Laterza, Bari 1935. 3 di declinare la laicità dello stato in forme che siano adeguate alle domande che provengono dalla società contemporanea. Come ha ricordato Mons. Giacomo Canobbio, occorre sostare sul significato originario di “cattolico”. Occorre “attualizzare” quell’apertura verso il tutto, memori dell’assioma dell’Ambrosiaster, ripreso anche da San Tommaso d’Aquino: «La verità, da qualunque parte venga, è dallo Spirito Santo».