Per una città interculturale e interreligiosa - presentazione di don Giacomo Canobbio

Per una città interculturale e interreligiosa - presentazione di don Giacomo Canobbio

Da quando nel 1996, riprendendo un saggio di alcuni anni precedente, Samuel Huntington ha pubblicato l’opera Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale. Il futuro geopolitico del pianeta, un fantasma si aggira nella mente di molti: quello di un conflitto permanente; si dovrebbe cioè mettere in conto che il sogno di un’umanità riconciliata è destinato a svanire appena si guardi con occhio attento quanto sta avvenendo; infatti il futuro che ci sta davanti sarà di scontro, come peraltro si constata nelle guerre e nei soprusi che in ogni parte del mondo si scatenano in nome delle religioni e delle culture che pretendono di difendere la propria identità contrapponendosi ad altre.

Né gli esperimenti di convivenza pacifica tra appartenenti a differenti religioni sembrano capaci di far nascere speranza. Si fa strada anzi la convinzione che sarebbe ingenuità pensare a un futuro nel quale i popoli non facciano più delle religioni il motivo delle loro contrapposizioni. I sogni di Abelardo, Raimondo Lullo, Nicolò Cusano, Moses Mendelssohn, di giungere a una conciliazione mediante il dialogo a molti sembrano ormai svaniti e con essi anche le pratiche che le Chiese cristiane hanno messo in atto negli ultimi decenni per lanciare ponti con tutti in vista della pace mondiale. Le affermazioni relative alla necessità del dialogo appaiono a qualcuno indizio di incapacità a comprendere i fenomeni in atto, quando non sono sintomi di cattiva coscienza. Si dovrebbe mettere in conto lo scontro di civiltà e attrezzarsi a uscirne vincitori, se non si vuole vedere la nostra civiltà scomparire come è avvenuto in molte parti dell’Africa e dell’Asia con l’arrivo dell’islam.

Scontro o ricerca di ritrovare una base comune che permetta una convivenza pacifica? L’interrogativo appare ineludibile sotto l’urto di fenomeni migratori. Infatti mai come negli ultimi decenni i sistemi religiosi hanno avuto la possibilità di confrontarsi e non solo mediante la comparazione dei rispettivi testi sacri e dei riti, bensì pure mediante contatti ravvicinati tra fedeli di diverse appartenenze. Le religioni, mai separate dalle culture nelle quali il nativo senso religioso ha preso configurazione storica, si incontrano e si scontrano sul terreno della convivenza civile, generando a volte fondamentalismi escludenti in nome di verità identitarie. E in forza della legittimazione della pluralità delle culture/religioni non pare possibile tornare al tentativo operato dal pensiero moderno di trovare una base comune a tutte le religioni mediante la riconduzione della verità delle stesse alla religione razionale: questa appare infatti modellata sul pensiero occidentale pervaso dal cristianesimo. Alla fine anche la religione razionale non sarebbe altro che un tentativo dell’Occidente di imporre la sua visione agli altri sistemi. Lo ha rilevato in forma acuta il teologo battista statunitense Marc Stephen Heim nei confronti dei teologi pluralisti, in particolare di John Hick e Paul Knitter. Se però non ci si può appellare a una base comune di carattere razionale pare che la convivenza tra appartenenti a religioni diverse sia destinata a un semplice accostamento di civil agreement, che lascia sullo sfondo la possibilità di una convergenza più profonda almeno sull’umano se non sulla divinità. La questione della verità viene in primo piano e se non fanno i conti con essa ogni accordo risulta piuttosto fragile, perché fondato semplicemente su decisioni che alla fine risultano esposte all’alea di legislatori illuminati.

La soluzione, da alcune parti proposta, di mettere in epoché la questione della verità perché in nome di essa nel corso della storia si sono operate ingiustizie e oppressioni, mostra il suo limite ogni volta che ci si siede al tavolo del dialogo. Qui si ritiene di stabilire un ethos comune frutto di convinzioni condivise oppure di rimandare all’eschaton il possibile incontro tra le molte verità. Se però si lascia impregiudicata la questione della verità, ovviamente da cercare e da mostrare plausibile, anche l’ethos comune risulta privo di un fondamento riconoscibile da tutti. Peraltro in rapporto alla ricerca di un ethos mondiale si pone la questione di come si possa costruire: mediante il riconoscimento di un umano di carattere metafisico? Mediante una forma di contrattazione che darebbe origine alla composizione di un “umano ecumenico”, alla fine artificiale se non trova una base condivisa?

La scelta di accettare semplicemente la diversità e rimandare all’eschaton la possibile conciliazione appare poi priva di consistenza. Il problema infatti non riguarda l’ipotetico annullamento delle differenze nell’eschaton; riguarda piuttosto la pacifica convivenza nella storia. Peraltro se si rimanda all’eschaton la conciliazione, resta da domandarsi quale sia il valore delle differenze attuali rispetto all’esito finale, i cui contenuti restano ignoti. Quali degli elementi che ora confliggono resterà? Se si dichiara che nessuno di essi resterà, posto che sia possibile stabilirlo, si deve concludere che anche sull’orizzonte della storia hanno scarso valore. Se si ritiene che resteranno tutti, come Heim prospetta parlando di Salvations anziché di Salvation, non si fa altro che proiettare sull’orizzonte del definitivo ciò che appartiene alla storia supponendo che la conciliazione sia semplice operazione di tolleranza reciproca, che peraltro potrebbe essere possibile anche nella storia.

Se invece ci si espone oltre la tolleranza e si pensa che tutte le vie conducano alla medesima realtà trascendente, che “è molti nomi” come sosteneva Ramon Panikkar, non si risolve il problema della differenza, e l’affermazione del valore di ogni via appare come un postulato pensato per legittimare il pluralismo di fatto rinunciando al tema fondamentale, quello della verità, per timore che esso conduca a forme di imperialismo foriero di violenze.

Questioni teoretiche si incrociano inevitabilmente con questioni pratiche attinenti alla convivenza tra persone e gruppi umani che hanno visioni diverse della realtà, della vita, della divinità, che provengono da tradizioni anche giuridiche differenti. Tutte le questioni hanno però un nucleo: qual è l’umano che ci sta di fronte? La migrazione dei popoli che comporta nuove forme di meticciato, ma anche erezione di barriere difensive, sta infatti sconvolgendo i parametri della valutazione dell’umano, le regole della convivenza, le dinamiche relazionali, tutti elementi che concorrono a porre il problema in forma acuta. Si tratta di una sfida ineludibile. Ci si dovrà rassegnare a non avere più un’unica risposta alla domanda? L’umano che ci sta davanti non potrà più avere lineamenti precisi? Sembra di trovarsi di fronte a un paradosso: le parole sull’umano si moltiplicano proprio mentre si ha la percezione che esso sia minacciato. In effetti la pluralità di visioni sempre più frammentata appare sintomo di tale minaccia: sembra non si riesca a trovare elementi condivisi quando lo si voglia descrivere. Serpeggia il timore che l’Autoritratto di Gino Severini (1912-1913) stia diventando icona del volto dell’umano, e di fronte a esso le posizioni si biforcano: da una parte si pensa che la situazione sia ineluttabile, che dell’umano non ci sia una figura compiuta, che la stessa evoluzione biologica orienti alla continua trasformazione sicché anche la scienza con il suo delirio di onnipotenza non farebbe altro che seguire gli impulsi che vengono dalla biologia; dall’altra si ritiene che si debbano porre argini alla deriva chiamando a raccolta gli elementi che la tradizione classica ci ha lasciato in eredità. Apertura al postumano o difesa dell’umano? Ma come stabilire ciò che è umano? Se le diverse culture propongono di esso volti difficilmente conciliabili (si pensi al modo di considerare le donne), come si potrà stabilire quali siano i diritti inalienabili delle persone? Se a tali diversificazioni si aggiunge il fatto che l’enciclopedia dei saperi accosta immagini diverse dello stesso, sarà possibile trovare alcune convergenze?

Fin dall’inizio della sua costituzioneAccademia cattolica di Brescia ha voluto intraprendere un percorso di ricerca sul futuro dell’umano nella convinzione che, nonostante tutto, questo stia a cuore a tutti i popoli e a tutte le religioni.

Anziché prendere avvio dalle questioni teoretiche, senza tuttavia ignorarle, si è voluto dare uno sguardo ai tentativi che le società occidentali hanno compiuto per non subire ma governare l’urto di culture e religioni diverse da quella che le ha modellate, mediante forme legislative che permettessero l’integrazione di tutti gli attuali o futuri cittadini. I tentativi sono apparsi tortuosi sia per la diversa concezione del rapporto tra Stato e società che si riscontra tra i nativi e i nuovi arrivati sia per la tradizione giurisprudenziale degli Stati ospitanti. L’osservazione dei tentativi di legiferare in materia non poteva che far nascere la questione delle idee sottostanti alle legislazioni, cioè l’idea di religione, di Stato, di società civile. Si apriva davanti un ampio campo di ricerca che non poteva essere affrontato se non con una ricerca interdisciplinare, dopo aver ascoltato alcuni esperti. In detta ricerca sono stati coinvolti alcuni giovani studiosi.

Il plesso di questioni che sorgono di fronte al fenomeno migratorio, che provoca rimescolamenti dei rapporti sociali con le relative implicazioni legislative, ha pertanto stimolato una ricerca teorico-pratica in un gruppo di borsisti che l’Accademia ha invitato. Osservare quanto la storia della città di Brescia attesta relativamente all’integrazione di ‘stranieri’, considerare alcuni principi di matrice filosofica su possibili elementi condivisi dell’umano, immaginare modalità di accostamento a chi appare diverso, studiare esempi di legislazione inclusiva, è servito a preparare il terreno all’idea di un progetto urbanistico. I borsisti hanno osato immaginare un luogo di incontro tra appartenenti a diverse religioni e culture presenti nel tessuto cittadino di Brescia. Pensare a un luogo vuol dire riconoscere che le relazioni umane si costruiscono dove le persone possono incontrarsi in modo informale, nella libertà e nel rispetto reciproco. Idea avveniristica, un sogno, si potrebbe dire. Ma è funzione dei sogni prefigurare il futuro: in essi si nasconde il meglio dell’umano.

Questo appare in costruzione ed è sfidato non solo dalle diversità culturali e religiose che propongono visioni a volte divergenti dello stesso, ma pure dall’imporsi del pensiero scientifico e dalla tecnica, che per un verso prescindono dalle culture e dalle religioni, per un altro si propongono come la nuova religione.

Per questo, in un secondo momento, non poteva mancare nell’itinerario di riflessione dell’Accademia l’attenzione al pensiero scientifico, ormai notevolmente variegato ma riconducibile a una medesima matrice: privilegiare l’empiria, benché gli scienziati più avveduti siano consapevoli che i saperi non sono mai semplice verificazione di fenomeni.

A fronte del vulgato modo di pensare il sapere scientifico si sono volute affrontare questioni di carattere epistemologico, attinenti cioè ai presupposti, alle metodiche, ai risultati dei saperi scientifici. Nel comune modo di pensare questi sono ritenuti semplice constatazione dei fenomeni e quindi riproposizione di essi in modelli, descrizioni, proposizioni. In genere pare non si rifletta in forma adeguata sulla struttura dei saperi scientifici, con la conseguenza di lasciare a essi l’ultima parola anche quando si tratta della vita umana. Il caso più evidente delle implicazioni di tale orientamento si ha nelle neuroscienze, che sono la nuova frontiera del sapere l’umano. Qui, in alcune correnti, si mette in discussione la complessità dell’umano attribuendo ai processi neuronali azioni che nel passato venivano pensate originate in un principio spirituale, l’anima. La conseguenza è che responsabilità e libertà, elementi correlati e distintivi dell’umano, non trovano più posto nella considerazione di quell’essere particolare che è capace di pensare, amare, parlare, pregare. Le ricadute giuridiche di questo esito sono facilmente verificabili. Così le ricadute nelle cure mediche, mentre per altro verso si sta considerando la necessità di una medicina olistica.

Si profila pertanto un plesso di questioni difficilmente eludibili. L’Accademia ha inteso affrontarle con spirito aperto, appunto cattolico, nella consapevolezza che la posta in gioco è troppo alta per lasciarla solo ai divulgatori. Res nostra agitur: per questo non possiamo non interrogarci su cosa resti dell’umano quando il pensiero scientifico diventa l’unico signore nella enciclopedia dei saperi.

Siamo consapevoli che la figura definitiva dell’umano non è ancora data: l’umano è in processo. La storia sta a mostrarlo, come pure lo mostrano i diversi approcci a questo fenomeno. Ma appunto qui sta la sfida: ci sono elementi imprescindibili? Nel 2008 il sociologo della cultura J.-M. Schaeffer nell’opera La fin de l’exception humaine proponeva di considerare anche l’umano alla stregua di tutti gli altri fenomeni. Se però non resta più l’“eccezione” umana che figura di società si profila?

In questo ultimo interrogativo si delinea il lavoro che i borsisti dell’Accademia si accingono a intraprendere dopo aver concluso un primo triennio di ricerca.

I contributi qui pubblicati sono il frutto della riflessione pluridisciplinare dei primi tre anni. Sono proposti ai lettori come stimolo a una ricerca che continua e che potrà ottenere risultati solo dando spazio a tutte le forme di sapere. Il volume si presenta come tentativo di avviare percorsi che giungano anche a proposte di esperienze di umano aperto, accogliente, rispettoso, che nasce in un luogo che dispone all’incontro.

Si prende avvio con il saggio del Dott. Federico Nicoli sul concetto di riconoscimento, che rimanda a una specifica forma di volontà: quella che orienta l’individuo a reclamare il personale desiderio di essere riconosciuto come se stesso da un altro suo simile. Una buona relazione sembra dunque essere necessaria per una convivenza pacifica e tollerante, ma nello stesso tempo non avulsa da intenzioni di crescita e di critica. Tuttavia il personale desiderio di essere riconosciuto include in sé la nozione di lotta. L’obiettivo è cercare di comprendere se tale nozione possa non implicare necessariamente una condotta violenta tra gli individui.

Si prosegue con il saggio del Dott. Antonio Freddi. L’individuo umano senza relazioni, senza l’altro, senza la differenza, è incompleto: non può svilupparsi, non raggiunge la propria stessa individualità, soffre, forse neppure può vivere. Ciò è tanto più evidente nei bambini, soprattutto nelle prime fasi del loro sviluppo, come sottolinea l’autore del contributo “Individualità dall’alterità e dal movimento. Un suggerimento dal mondo infantile”. È proprio da un approfondimento della sete di “contaminazione” e condivisione dei bambini, o in altre parole dalla comprensione della narrazione intersoggettiva che l’infanzia porta con sé, che è possibile ricavare un modello relazionale applicabile agli adulti e ai gruppi umani di culture differenti.

Non poteva però mancare uno sguardo alla storia della nostra città. Per questo il Dott. Marco Dotti affronta le dinamiche sociali ed economiche che caratterizzano la Brescia barocca, ponendo particolare attenzione alle pratiche connesse all’inclusione nella società urbana. Dalla ricerca emerge un perimetro, a tratti sorprendente, delle condizioni stesse di “cittadino” e di “straniero”. Queste ultime sembrano essere determinate più dai rapporti socio-economici e istituzionali, intessuti nello spazio urbano, che dalla provenienza geografica.

Osservando quanto è avvenuto negli altri Paesi offre possibili indicazioni anche per il nostro. In questa prospettiva si pone il contributo della Dott.ssa Marcella Ferri, che descrive brevemente l’istituto dell’obbligo di accomodamento ragionevole, elaborato dalla giurisprudenza della Corte Suprema Canadese. Tale principio permettendo, in particolari condizioni, di derogare al contenuto della norma qualora questa ponga dei limiti alla manifestazione dell’identità religiosa del singolo, si rivela uno strumento particolarmente efficace per risolvere le questioni connesse alla gestione della diversità culturale all’interno delle società interculturali.

L’incontro tra persone in vista della integrazione suppone spazi. All’ideazione di questi si sono dedicati l’Arch. Fabio Romagnoli, le dott.sse Anna Richiedei, Anna Frascaroloe Cinzia Pistoia. Quando si parla di spazi urbani sono molte le questioni che vanno ad interfacciarsi con la costruzione strutturale che immagina la creazione di uno spazio interculturale e interreligioso. In primis, emerge la necessità di un’attualizzazione pratica di quello che potrebbe essere il concetto utopico che accosta l’atto stesso dell’abitare all’idea di un luogo interculturale e interreligioso. A partire dal concetto genealogico che include nella responsabilità dell’abitare l’essenza dell’essere cittadini, si analizzeranno i passaggi che hanno cambiato la morfologia delle città e, di conseguenza, si vedrà come le città stesse siano cambiate in relazione ai cittadini che le abitano. Quali sono, dunque, le potenzialità di un luogo costruito sulle misure di chi lo abita? Sulla scia della dimensione della città letta nelle parole del Cardinal Carlo Maria Martini su Gerusalemme, emergeranno alcune necessità funzionali legate alla convivenza - nonché all’incontro fra alterità - che protenderanno verso la focalizzazione sistematica di alcuni elementi strutturali. Secondo questa logica, si riterrà necessaria l’introduzione di alcuni punti atti ad esprimere le caratteristiche dello spazio che sarà luogo di accoglienza. Lo spazio polisemico diverrà il focus metodologico di una progettazione ampliabile ed esportabile, in grado di esprimersi ed applicarsi anche in altri contesti, modulabili grazie al suo carattere dinamico. Lo spazio polisemico si curerà di farsi sede di una configurazione capace di ripensare i confini morali, culturali e religiosi nei termini di un dialogo che si compirà per mezzo dell’utilizzo delle sue strutture architettoniche.