Il mestiere di teologo o la perspicacia della fede

Il mestiere di teologo o la perspicacia della fede

Con Destinati alla beatitudine, (Milano, Vita e Pensiero, 2012) Giacomo Canobbio rivisita un tema antico, anzi tradizionale. Dopo l'anima, su cui ha scritto un "Pellicano rosso" per Morcelliana nel 2009, oggetto di questo volume sono i "novissimi". Nella teologia cattolica con questa espressione si indicano le "cose ultime" (dal latino novissima), «cui l’uomo va incontro al termine della vita: la morte, il giudizio particolare, il paradiso o l’inferno». Il termine "escatologia", che utilizza l'etimologia greca, «si applica invece soprattutto al destino ultimo dell’umanità intera» (Treccani).

Si potrebbe osservare che l'interesse precipuo di questo libro stia nel linguaggio che utilizza e, in radice, nel metodo sotteso. A patto di precisare che metodo e linguaggio sono strettamente solidali al fine teologico. Lo si può consigliare, da questo punto di vista, a chi voglia farsi un'idea di che cosa ha significato in termini di cambiamento della mentalità il concilio Vaticano II. Per la chiesa, da san Paolo in qua, la risposta al problema della morte e del destino dell'uomo - in una parola: la sua salvezza - è nell'annuncio del Cristo risorto. La continua sfida sta nel porgere, con un linguaggio comprensibile agli uomini delle generazioni che si susseguono, tale annuncio. Il che significa, da un lato, tener conto di ciò che la Tradizione afferma al riguardo e, dall'altro lato, dirlo - e ridirlo - in una forma avvertita anche delle opportunità poste di volta in volta dall'orizzonte culturale in cui la fede cristiana vive. Sfida e opportunità stanno insieme.

Il volume si articola in Prefazione, sei capitoli (1. Come conoscere il nostro destino 2. L'anima, traccia della destinazione alla beatitudine 3. Le molte facce della morte 4. Il paradiso: destino beato degli umani 5. Il purgatorio: incontro purificatore con la misericordia - con l'interessante appendice sulle indulgenze - 6. L'inferno: tragica possibilità per gli umani) ed Epilogo. Lungo le circa 160 pagine del libro (di cui 40 di note fitte, puntuali e chiare) è possibile anche ripercorrere le tappe principali del percorso storico compiuto dal pensiero teologico e dal magistero della chiesa intorno ai novissimi. Il che non è mero esercizio erudito, ma robusta consapevolezza di quanto il tempo e la storia siano intrinseci alla stessa rivelazione e alla sua comprensione, che non è mai definitivamente data, ma esige un costante esercizio di interpretazione e di intelligenza da parte della chiesa e degli uomini cui si rivolge.

Non ci si soffermerà, di seguito, in una analisi dettagliata dei singoli capitoli. Preme piuttosto, dopo averne tratteggiato l'impianto complessivo ed esposto i principali motivi di interesse, seguire l'autore su alcuni passaggi, rinviando il lettore direttamente al testo. Punto di partenza per Canobbio è l'interesse degli uomini e delle donne - interesse che non sembra venir meno anche oggi - per ciò che tocca il futuro, il destino storico e ultrastorico: oroscopi, magia, cartomanzia ecc. Cosa può dire la fede cristiana al riguardo? Non può certo tacere di fronte alle domande che questi problemi pongono. Non parlerebbe agli uomini. Ancor meno «può accreditare un'immagine fatalistica della storia dove Dio sarebbe visto come il garante dell'ordine immutabile delle cose» (p. 11). Deve farsi carico di trasmettere un'immagine autentica di Dio. Il teologo sa che per gli umani «è difficile sopportare il mistero». Cercano di controllarlo: negandolo (mistero è semplicemente il non ancora conosciuto) «o tentando di penetrarlo, con l'ausilio dell'occhio perspicace dei "veggenti"». Le due modalità convivono, anche nelle società più evolute, pur se in forme differenti. Un certo modo di pensare, per cui il destino sarebbe predeterminato, non è estraneo nemmeno al vissuto dei credenti, con il rischio inconsapevole di scivolare dagli astri a Dio.

Riconoscersi destinati non è una semplice constatazione. È l'interpretazione di un dato di fatto: significa cogliere la propria situazione vitale nella sua causa (astrale o divina). Significa cogliersi come "disposti" da un principio-forza. Questa percezione può essere letta come apertura religiosa (a prescindere dalla specifica credenza): si riconosce la propria libertà come circoscritta dentro un ambito di determinazione. E questo corrisponde ad un'autentica dimensione della realtà umana. Confermata peraltro dalle scienze umane. Però non può essere assolutizzata fino a vanificare la libertà. «L'uomo è, paradossalmente, libero nella determinazione. La sua è una libertà limitata» (p. 14). Ciò che può fare è assumere i dati che lo determinano e organizzarli per decidere in libertà la propria esistenza.

Fin qui la lettura della situazione data. Vediamo ora come Canobbio procede da teologo. Recupera «il tema cristiano della creazione», che «può agganciarsi e fare da correttivo al pensiero vulgato del destino. L'uomo è strutturalmente determinato da Dio, ma non verso un destino ignoto, bensì verso la pienezza di vita». È chiamata cioè in causa la sua responsabilità. Ma attenzione alla curvatura, in primis non "morale" bensì relazionale, che Canobbio dà al discorso: «Dire "responsabile" significa ricordare il principio di disporre di sé in rapporto "responsoriale" con Dio». In tale senso il destino degli umani non è ignoto, ma "rivelato". Certo, «la visione qui allusivamente proposta si scontra con una difficoltà»: la resistenza delle persone umane a essere determinate da altri, specie se questi pretendono di stabilire la meta definitiva dell'esistenza. L'uomo contemporaneo può accettare di essere determinato da fattori biologici o psicologici, ma non da un essere estraneo alla vita umana. Ancora una volta è in gioco la difficoltà a stare nella via mediana: la libertà o è assoluta o non esiste.

Seguimo però Canobbio in un passo ulteriore, là dove analizza "una situazione analoga all'interno del mondo credente. Anche qui, come per coloro che si rivolgono a "specialisti" della lettura del futuro, si palesa una difficoltà: il bisogno di persone rassicuranti, che dicano la parola che interpreti senza tentennamenti le vicende della vita. «È faticoso per molti vivere nella ricerca, che comporta il dubbio, a volte, e nella responsabilità personale. Non si riesce a sopportare che la rivelazione non sia chiara, che Dio si faccia cercare, che l'esistenza umana resti non penetrata» (p.16). Qui e nel seguito del volume Canobbio si mostra felice frequentatore di quella che, in un ambito più specifico, egli stesso chiama "perspicacia della fede". Nota come non sia più possibile per il credente optare per illusorie certezze, garantite da un'autorità sicura, piuttosto che per il mistero e il margine di incertezza che esso lascia come spazio per la libertà personale. «I progressi delle scienze bibliche e della riflessione teologica» non consentono più di leggere la rivelazione e la Scrittura come una sorta di manuale pratico per le varie circostanze della vita. Nella Scrittura è naturale che Dio parli con le parole dell'uomo e queste «sono costruite dentro un'esperienza che si sviluppa: l'uomo parla di Dio, non con parole da lui suggerite ma con quelle che egli stesso produce. Non ci sono parole sacre che verrebbero dal cielo. Non è l'uomo che parla con le parole di Dio, ma Dio che parla con le parole dell'uomo» (p.23). Ciò tra l'altro rivela alcuni limiti del linguaggio di tutte le epoche, perché sempre il linguaggio attinge ed è immerso nell'immaginario comune e "globale" del proprio tempo, per cui «si alimentava e si alimenta alle dinamiche caratteristiche delle relazioni sociali normate sulla base di archetipi». Questo - si sta parlando di come viene costruito l'immaginario relativo all'aldilà, ma la valenza di metodo è certo più ampia - «vale poi sia per le formule dogmatiche, almeno nel loro tenore verbale se non nel loro senso, sia per la spiegazione catechistica di esse, sia per le credenze diffuse. Non è plausibile infatti che nel modo di pensare e proporre la fede si possa prescindere dalla visione globale della realtà» (p.24). Queste osservazioni operano in tutto il resto del volume.

Per tornare al punto specifico, «Dio rivelandosi ha comunicato se stesso e non ha svelato la sorte di ciascuno in dettaglio»: non ha tolto il mistero, che avvolge l'esistenza dei singoli, ma «ha indicato l'orizzonte entro il quale interpretare tale esistenza, in tutti i suoi aspetti». Certo, Dio ha rivelato il destino dell'uomo, ma tale destino è Dio stesso: è lui la meta verso il quale l'uomo è orientato. Il resto - salute, malattia, rapporti umani, condizione economica - non è il destino, ma la condizione umana, nel gioco della determinazione e della libertà. Detto altrimenti: il cristianesimo, non pretende di conoscere perché le condizioni di una persona sono in un certo modo, ma dice che l'esistenza umana è sensata non in quanto, attualmente, essa è serena o tribolata, ma «perché è vissuta in relazione con Dio. E la relazione sgorga dalla libertà». Nessuno può svelare il "destino" particolare di una persona: questo resta aperto al gioco della relazione con Dio in libertà; relazione resa possibile dal rivelarsi di Dio come meta definitiva oltre le contingenze. Certo, ciò lascia meno sicuri, «ma apre al tempo stesso alla coscienza che, oltre l'oroscopo, resta il margine del futuro ultimo, che non l'oroscopo, ma la libertà determina. E solo chi accetta il gioco insicuro della libertà accetta autenticamente la condizione umana di fragilità, generata dalla contingenza ontologica, e resta aperto per l'affidamento al principio dell'esistenza, senza mediazioni rassicuranti» (p.18). Una fragilità giocata dentro la relazione e nell'affidarsi a Dio, cogliendo nella vicenda di Gesù Cristo - nel quale Dio si è rivelato e ci ha svelato il futuro - che il destino dell'umanità è di vita e non di morte.

La presentazione del volume di Canobbio potrebbe chiudersi qui, lasciando intero al lettore il piacere di percorrere le diverse parti del volume, con l'invito a non lasciarsi troppo ingannare dai titoli dei capitoli e dei paragrafi, che non cercano il clamore della novità: la freschezza e il fascino del pensiero pervadono le pagine dove l'autore dà respiro alle antiche formule e le restituisce in una gamma di sfumature che ben rendono la felice circolarità tra l'intelligenza e la sensibilità del teologo e la cultura, intesa in senso antropologico, odierna. Cosa che allude e apre a un reciproco possibile aggiornamento (Canobbio insiste più volte su ciò che lo statuto conoscitivo della teologia può apportare agli altri saperi umani). Eppure un paio di questioni meritano di essere almeno accennate.

La prima è la trattazione del tema della felicità in rapporto a quello del paradiso, che comprensibilmente per lo stesso Autore rappresenta uno dei capitoli chiave del volume. Il tema è ancora una volta occasione per precisare i limiti del linguaggio e delle sue figure retoriche per "l'eccedenza della beatitudine". Vi ha un ruolo chiave anche il "desiderio", senza che peraltro Canobbio menzioni esplicitamente Lacan o Françoise Dolto, che certo gli sono ben noti. Nel corso del volume molteplici sono infatti i riferimenti alla riflessione analitica e psicologica. Ipotizzo, ma potrei errare, che ciò sia dovuto al desiderio dello stesso Autore di dare profondità speculativa e storica a temi oggi fin troppo ricorrenti e prospettati dalla pubblicistica come se nessuno prima vi avesse riflettuto. Non a caso viene menzionato un saggio come quello di Martha Nussbaum su Terapia del desiderio. Terapia e pratica nell'epoca ellenistica (Vita e Pensiero, 1998). Ma, soprattutto, è ad un passo del Commento di Agostino d'Ippona alla prima Lettera di Giovanni (3, 1-2) che viene fatto esprimere il destino comune di tutti gli uomini voluto da Dio: «La vita di un buon cristiano è tutta un santo desiderio. [...] Viviamo dunque di desiderio, poiché dobbiamo essere riempiti. Ammirate l'Apostolo Paolo che dilata le capacità della sua anima per accogliere ciò che avverrà. Egli dice infatti: Non che io abbia già raggiunto il fine o che io sia perfetto; non penso di aver già raggiunto la perfezione, o fratelli [Fil 3, 12-13]. Ma allora cosa fai, o Paolo, in questa vita, se non hai raggiunto la soddisfazione del tuo desiderio? Una cosa sola, inseguire con tutta l'anima la palma della vocazione celeste, dimentico di ciò che mi sta dietro, proteso invece a ciò che mi sta davanti [Fil 3, 13-14]. Ha dunque affermato di essere proteso in avanti dei tendere al fine con tutto se stesso. Comprendeva bene di essere ancora incapace di accogliere ciò che occhio umano non vide, né orecchio non intese, né fantasia immaginò. In questo consiste la nostra vita: esercitarci con il desiderio» (p.90).

Nell'epilogo, infine, Canobbio si chiede se oggi «l'essenza del cristianesimo non possa essere vista nella risurrezione dei morti", che di solito è colta come seconda rispetto a quella di Cristo. Agli uomini non basta infatti non morire completamente (tema sotteso alla dottrina della immortalità dell'anima): «vogliono vivere totalmente; il corpo non è un fardello da deporre a un certo punto dell'esistenza: è la persona nel suo manifestarsi e nel suo costruirsi; senza di esso non si sarebbe umani. Per questo l'annuncio della risurrezione non soltanto confessa la potenza vivificante di Dio, ma dichiara pure che il desiderio degli umani di non morire non è illusione: corrisponde piuttosto alla loro struttura; è traccia del loro destino. Ovvio che questo può giungere a realizzazione solo grazie a chi lo ha stabilito. [...] Avevano ragione gli antichi autori biblici a connettere risurrezione e creazione. Nell' una e nell'altra ne va dell'identità di Dio. Credere solo nella creazione e non nella risurrezione coincide con il depotenziare l'identità di Dio rendendola principio di una esistenza per la morte, la quale alla fine mostrerebbe la sua supremazia» (p.125). In questa prospettiva si comprende pure, nota felicemente l'Autore, «l'affermazione credente di una palingenesi dell'universo: [...] gli esseri umani non possono stare senza il loro habitat, come non possono stare senza il loro corpo» (p.126). A chi ancora volesse ipotizzare contrasti tra ciò che afferma la fede e ciò che ipotizza la scienza, la risposta è un invito a non dimenticare che "le descrizioni" su come saranno i cieli nuovi e la terra nuova oppure i corpi risorti, sono metafore e la metafora «non è un semplice escamotage per sfuggire all'urgenza degli interrogativi; è piuttosto dichiarazione del limite del linguaggio umano quando si tratti di dire ciò che non è ancora oggetto di esperienza, eppure deve essere detto perché riguarda gli umani» (p.126). Per cui: «Credere in Dio cessa di apparire affermazione di un essere assoluto; diventa confessione che il datore originario della vita non smette di essere tale neppure di fronte alla potenza momentaneamente invincibile della morte» (p.127). Qui la scienza si ferma e lascia spazio solo al desiderio, che - nota Canobbio - è la "traccia" della nostra destinazione alla beatitudine. Ciò che permette la sua "decifrazione" è la rivelazione. Il libro si chiude con una azzeccata metafora della rivelazione: il «dono anche di un linguaggio che abilità a sperare».

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