Sviluppo tecnologico e futuro dell’umano: originalità del suo desiderio

Sviluppo tecnologico e futuro dell’umano: originalità del suo desiderio

La tecnica ha inscritta in sé la tensione verso il futuro. Essa, pur essendo ritenuta via mediante la quale gli esseri umani cercano di dominare il mondo in cui sono posti, può diventare distruttiva del medesimo mondo. Ciò accade quando coloro che la sviluppano si soffermano a considerarne la potenza, quasi pura espressione della volontà di potenza di chi la produce e se ne serve. La tecnica non va sicuramente demonizzata: grazie a essa la vita umana di molte popolazioni è migliorata e si è prolungata. Questa constatazione ha creato notevole fiducia nella capacità della tecnica di difendere gli esseri umani dai limiti, compreso il limite estremo della morte. Sintomatiche al riguardo alcune pratiche finalizzate a prolungare la vita umana fino a cinquemila anni (cfr. C. Lafontaine, La société postmortelle). Fondandosi su questo orientamento si arriva a parlare di “società postmortale”. Esso denota il bisogno/desiderio umano di sconfiggere la morte, che costituisce la dichiarazione più evidente del “limite” della tecnica. Eppure, anche mettendo in conto detto limite, non viene meno il desiderio degli esseri umani di sconfiggere la morte.

A fronte di questo desiderio ci si può domandare se si debba accettare con rassegnazione la mortalità comune a tutti i viventi, oppure se per gli esseri umani non si apra una possibilità non affidabile alla tecnica, bensì alla Sorgente della vita. Le religioni, in particolare quella ebraico-cristiana, hanno questa proposta da offrire all’umanità. In questo modo colgono nel desiderio di vincere la morte la traccia di una destinazione, che mette in evidenza la singolarità degli esseri umani rispetto a tutti gli altri viventi. In tal senso, il futuro inscritto nella tecnica può essere letto come antidoto alla rassegnazione di fronte alla morte, purché la stessa tecnica non diventi strumento di morte, contraddicendo se stessa. Dire strumento di morte può apparire eccessivo. Forse si potrebbe parlare di ambiguità della tecnica.

Posto questo, si tratta però di verificare quale futuro ci si possa attendere da essa e se questo basti agli esseri umani.

Quanto al primo aspetto, ineccepibile che si ritenga possa offrire condizioni di vita migliore.

Quanto al secondo ci si può domandare se basti agli esseri umani una vita migliore e quale sia la misura di questa. Per verificarlo si può partire da un confronto tra la scienza/ la tecnica e le forme di sapere che vanno alla ricerca di un fondamento non semplicemente empirico ai fenomeni. La questione potrebbe essere formulata in questo modo: ci si può accontentare della registrazione dei processi in atto nei fenomeni, in particolare del fenomeno umano?

Per affrontare la questione si deve prestare attenzione alle ragioni che nel corso del tempo hanno spinto le persone umane a non accontentarsi della descrizione del fenomeno umano. Indiscutibile che l’interrogare appartenga in forma singolare all’animale umano. Ma ci si può domandare: il fatto che gli esseri umani pongano interrogativi è solo frutto di una ‘cattiva’ abitudine invalsa nella tradizione antica? Quand’anche così fosse, perché gli umani si sono posti domande di fronte alla realtà, ma soprattutto di fronte alla morte? Queste, non lo si può negare, non sono forse il primo tentativo di valicare un limite che si para di fronte all’essere umano? L’interrogarsi non è già frutto del desiderio di superamento del limite?

Non sappiamo certamente se gli altri esseri viventi si pongano domande; di fatto anch’essi cercano di superare limiti, ma in modo diverso rispetto agli umani: almeno non comunicano in forma elaborata le eventuali domande. Il loro desiderio di superare la morte si presenta diverso da quello degli umani. Peraltro anche le relazioni umane sono vissute diversamente dalle relazioni tra gli animali, come pure tutte le operazioni che gli umani condividono con gli altri animali (mangiare, dormire, accoppiarsi …) sono attuate in forma diversa, benché i meccanismi che presiedono a tali operazioni siano abbastanza simili.

Tenendo conto di questo grappolo di notazioni, si può sostenere che gli esseri umani si caratterizzano per la capacità: 1. di porre domande di fronte al limite, comunque questo sia inteso; 2. di vivere relazioni consapevoli con una molteplicità di termini, tra i quali sta anche la trascendenza; 3. di desiderare di vivere per sempre, benché esperimentino l’impossibilità a realizzare da sé il desiderio.

Connettendo tra loro questi aspetti pare si possa affermare che gli esseri umani sono connotati dalla capacità di desiderare che la loro vita sia garantita da una relazione in grado di far valicare la soglia della morte. Solo se esiste tale garanzia il desiderio si differenzia dall’illusione cui segue necessariamente la frustrazione.

Al di là del contenuto concreto che in esso gli esseri umani pongono, il desiderio indica un orientamento nativo verso la pienezza di vita. Tale orientamento si configura simbolicamente come vittoria sulla morte, o più genericamente come superamento, atteso, del limite, qualunque volto questo assuma: tutto ciò che sembra interrompere la protensione verso la pienezza viene valicato mediante il desiderio.

Siccome in ogni interruzione si anticipa l’interruzione radicale, la morte, il desiderio si configura come attesa di vincere la morte, benché gli esseri umani siano consapevoli della loro nativa incapacità a realizzare l’oggetto del nativo desiderio, stante la loro condizione di mortali. La dialettica tra desiderio e impotenza a realizzarlo caratterizza così l’esistenza umana e diventa luogo della tensione “religiosa”, termine che per ora utilizziamo in forma generica per dire apertura verso un orizzonte di pienezza.

Il sospetto che potrebbe nascere di fronte a questa prospettiva deve essere considerato pregiudizievole: è frutto della convinzione che l’escalade ontologique (cfr. J.M. Schaeffer, La fin de l’exception humaine)non sarebbe più possibile, dimenticando che il desiderio appartiene nativamente agli esseri umani. Eventualmente si dovrà tentare di capire quale ne sia l’origine.

Agostino nelle Confessioni X,21,31, nel contesto della riflessione sulla ricerca della beatitudine, sottolinea con perspicacia che l’uomo è perennemente in ricerca della felicità: «Se tu domandi a due uomini se vogliono diventare militari, è possibile che uno risponda sì e l’altro no; ma quando si domanda a essi se vogliono essere felici, entrambi diranno subito, senza ombra di dubbio, di sì; anzi il motivo per cui uno vuole fare il soldato e l’altro no è soltanto la felicità».

Ci si deve domandare però perché negli umani ci sia questa ricerca: si tratta di capire quale sia l’origine della ricerca della felicità e ulteriormente se essa abbia possibilità di giungere al suo termine.

Se si constata che negli esseri umani vi è una generale ricerca di felicità, si può almeno ipotizzare la possibilità di ‘sperare’ fondatamente che i limiti da loro sperimentati (l’ignoranza, la malattia e la morte) possano essere valicati per la disposizione di Dio, che sta pure all’origine del desiderium, sicché questo non può essere inane. In effetti, una concezione che considerasse inane il desiderio dovrebbe far concludere che l’esistenza umana è nativamente destinata alla frustrazione; a meno che si ritenga che l’accento posto sul desiderio sia un portato culturale che alla fine creerebbe negli umani attese che avranno esiti frustranti. Se ci si attenesse a tale prospettiva, potrebbe prefigurarsi una “vittoria” del pensiero ‘scientifico’: svolgerebbe una funzione salutare perché libererebbe dall’angoscia indotta dal desiderio destinato alla frustrazione, alla cui origine starebbe la storia della cultura occidentale.

Questa ipotesi dovrebbe però essere verificata in rapporto all’origine della cultura: dato per scontato che essa appare con gli umani, ci si dovrebbe domandare perché il cervello umano sia in grado di produrre cultura e in vista di che cosa. Non si dovrebbe vedere proprio nella produzione della cultura il tentativo di vincere la morte, attraverso la creazione di qualcosa che rimanga, la costruzione di relazioni soddisfacenti, la protensione alla scoperta del mondo? E tutto questo non potrebbe essere indizio della ricerca di felicità, pur provvisoria, inscritta negli umani, che non riescono a trovarla semplicemente nel soddisfacimento dei bisogni fisiologici? Diversamente non si capirebbe neppure la ricerca scientifica, che è sempre ricerca asintotica di sapere. Appunto questa non potrebbe essere intesa come il segno di un’apertura a una pienezza che si prefigura come dono?

Su questo sembra possibile provocare il pensiero tecnico/scientifico a un dialogo: l’origine del desiderio può essere ascritta solo a dinamiche cerebrali, e l’esito può essere raggiunto solo nel soddisfacimento dei bisogni fisiologici, o anche di bisogni ‘spirituali’ che però sarebbero semplice frutto di processi neuronali? Ovviamente questi esiti non vanno scartati, ma non bastano, come non basta un esito indefinito, quale, ad es., quello di un sapere sempre aperto, che peraltro sarebbe accessibile solo all’umanità e non alla singola persona umana.

Una volta constatato il desiderio, resta da vedere quale ne sia l’origine. Ammesso che il cervello – che però non può mai essere isolato da tutto l’organismo – svolga di fatto una funzione imprescindibile nella produzione del desiderio, come di ogni pulsione, passione, sentimento, pensiero, ci si deve domandare se il desiderio abbia la sua origine nel cervello, e sia quindi configurato da esso (si tratta del desiderium naturale, non dei singoli desideri, che possono trovare la loro ragione nella cultura e/o nelle passioni)[1].

Il problema riguarda la possibilità di delineare un desiderio fondamentale comune a tutti gli umani, e quindi la possibilità di cogliere il desiderio nei desideri. Al riguardo si deve registrare che la scienza tende all’universale almeno allo stesso modo della filosofia e della teologia: non a caso si parla di cervello e non di cervelli quando se ne vuol descrivere il funzionamento. Sicché, per quanto sia vero che si procede per modelli, resta indiscutibile che anche il modello ha una pretesa (momentanea) di valere per tutti, salvo constatazioni diverse.

Ora, quale può essere l’origine del desiderio di felicità/beatitudine? La domanda può essere certamente posta sul piano puramente fenomenico e condurre alla già ricordata risposta di Karl Marx, che nessuno può negare trattarsi di una possibile, benché non normativa, interpretazione: la condizione infelice genera il desiderio, alienante, di una condizione felice. Tuttavia resterebbe da domandarsi perché in una situazione percepita come causa di infelicità si produca un mondo nel quale si potrà finalmente essere felici. Da dove viene l’idea che si debba essere felici; che il mondo che impedisce la felicità non sia il mondo in cui si dovrebbe vivere?

Si apre così uno spiraglio su un’origine altra del desiderio, cioè, per usare il linguaggio della teologia, nell’essere umano come immagine e somiglianza di Dio. Ovvio che un’affermazione di questo genere non può essere “verificata”: si tratta di una lettura del fenomeno umano, che anche solo per il fatto di essere posta non può apriori essere ritenuta priva di senso. Si deve piuttosto tentare di capire quanto essa possa servire a delineare la singolarità dell’essere umano. La tradizione scolastica ha posto l’accento sulla capacità – donata – di conoscere e di amare (cfr. Summa Theologica, I, 93, 4 c), che comporta un duplice registro: quello della estensione (universalità) e quello dell’intensità. Ambedue i registri rimandano a un possibile compimento, la tensione verso il quale suppone una ‘nostalgia’ (desiderio e nostalgia si richiamano), collegata con la ‘memoria’ di un’origine altra. Seguendo questa linea si coglie la plausibilità della descrizione agostiniana della mens (memoria, intelligentia, voluntas): la ‘mente’, non intesa semplicemente come nelle neuroscienze, diventa l’elemento distintivo degli umani, se la si considera nel suo funzionamento, tenendo conto che il nesso tra i tre elementi va inteso secondo la successione indicata, che serve a descrivere il fondamento e la dinamica del desiderio. In tal senso ‘difendere’ la mens è difendere l’umano nella sua originalità anche fenomenica, oltre che difendere un elemento umano che faccia da ponte tra l’esistenza terrena e il compimento escatologico delle persone.

Che il compimento non possa attuarsi in una esistenza continuamente minacciata dalla morte non ha poi bisogno di essere mostrato. Si presenta pertanto l’antico tema della ‘immortalità dell’anima’, che permette di dare volto al desiderio degli umani di non essere inghiottiti dal ‘nulla’ o di tornare semplicemente alla forma indifferenziata della ‘natura’; in ultima analisi, che permette di custodire l’originalità anche fenomenica degli stessi umani.

In conclusione, se si presta attenzione al desiderio di felicità che è presente in tutti gli umani, benché si orienti in forma differenziata, appare plausibile vedere all’origine di esso un principio umano di natura altra rispetto al dato neuronale. Tale principio contraddistingue gli umani e ne dice l’originalità rispetto agli altri animali. Che lo si chiami ‘anima’, ‘spirito’, mens, alla fine non ha grande rilevanza; ciò che conta è la res che il termine indica. Negarlo sarebbe minare alla base non solo la protensione che muove ogni progresso umano, sia esso scientifico, relazionale, artistico, ma pure il desiderio di felicità che alberga in ogni persona. Riconoscere un’anima ‘spirituale’ negli umani è riconoscere che in essi, pur nella esperienza della morte, permane la destinazione non solo alla felicità ma pure alla beatitudine.

Con ciò si ha la pretesa di dire una parola sull’essere umano che non nega gli apporti delle scienze, ma accettandoli come descrizione dei processi che negli umani si mettono in atto quando cercano di valicare i limiti che la condizione biologica, ma anche sociologica, impone loro. Si ha quindi la pretesa di difendere l’eccezione umana, anche quella degli scienziati che negandola sembrano dimenticare che il loro desiderio di pienezza eccede quello degli animali. E non pare che questo excessus sia ascrivibile soltanto a una diversa conformazione del cervello. Resta infatti sempre aperta la questione già ricordata: perché il cervello umano produce la ricerca della felicità? Torniamo così alla questione posta all’inizio: si può considerare legittima l’indagine che va alla ricerca del fondamento?

La teologia, in questa prospettiva, non solo ritiene di poter trovare casa nel novero dei saperi, ma pure di costituire uno spunto critico nei confronti delle forme riduzioniste che rischiano di esporre gli esseri umani a ogni possibile forma di manipolazione. In tal senso la tecnica, che non è mai di fatto neutra, senza la filosofia e la teologia da risorsa potrebbe diventare minaccia e quindi contraddire il desiderio degli umani di vincere la morte.

Giacomo Canobbio - (Accademia Cattolica di Brescia 30.05.2018)

Bibliografia

  • S. Agostino, Confessioni.
  • Céline Lafontaine, La société postmortelle, Paris, Seuil 2008.
  • Jean-Marie Schaeffer, La fin de l’exception humaine, Paris, Gallimard 2007.
  • Francesco Tomasoni, Ludwig Feuerbach. Biografia intellettuale, Brescia, Morcelliana 2011.
  • S. Tommaso d’Aquino, Summa theologica.

[1] Nei primi decenni del secolo XIX la tesi di una derivazione del pensiero dal cervello era stata proposta da Friedrich Dorguth, giurista e filosofo dilettante, nell’opera Kritik des Idealismus, Magdeburg 1837. Di quest’opera aveva pubblicato una recensione Ludwig Feuerbach per gli Hallische Jahrbücher nel marzo 1838, nella quale domandava all’autore se il pensare sia soltanto o non piuttosto anche un atto del cervello; siccome Dorguth propendeva per la prima visione, Feuerbach spiegava «che in tal modo si cade nel materialismo assoluto e si perde di vista il significato stesso del pensiero» (F. Tomasoni, Ludwig Feuerbach. Biografia intellettuale, Morcelliana, Brescia 2011, p. 185). Da parte sua Feuerbach cercava di rimuovere ogni dipendenza diretta del pensiero dal cervello; l’atto del cervello sarebbe «condizione delle condizioni interne del pensiero», nel senso che offre al pensiero le immagini e quindi «per noi», che siamo corpo e spirito; l’attività del cervello è condizione indispensabile perché possiamo pensare (ibidem).