Resoconto del seminario di Roberto Mazzola

Resoconto del seminario di Roberto Mazzola

LA TUTELA DELLA LIBERTÀ RELIGIOSA NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

Il seminario del prof. Mazzola si è diviso sostanzialmente in due parti: nella prima sono stati tracciati i profili strutturali del Consiglio d’Europa e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, mentre nella seconda sono state analizzati i fatti, i problemi, le peculiarità delle sentenze della Corte a partire dal 1993 per arrivare al 2009.

STRUTTURA, FUNZIONAMENTO E COMPETENZE DEL CONSIGLIO D’EUROPA E DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

La CEDU è organo interno del Consiglio d’Europa. Quest’ultimo è stato costituito con il Trattato di Londra nel 1949. È un organo internazionale paneuropeo. Attualmente fanno parte del Consiglio d’Europa 47 stati (tra i quali rientra la Turchia, che tuttavia non è membro della Comunità Europea); 1 stato candidato (Bielorussia) attualmente sospeso dalla candidatura in quanto inadempiente sul piano della tutela dei diritti fondamentali; 5 stati osservatori: Santa Sede, USA, Messico, Giappone, Canada. Il Consiglio d’Europa è un organismo complesso sia dal punto di vista giuridico sia dal punto di vista delle tradizioni. Fanno parte di quest’ultimo diversi organi alcuni dei quali interagiscono direttamente con la CEDU.

Quali sono i principali organi? A questo riguardo è necessario distinguere la composizione organica del Consiglio d’Europa secondo un criterio cronologico- Prima del 1998, il Consiglio d’Europa era costituito da 4 organi:

  1. Assemblea parlamentare (è organo motore del Consiglio d’Europa. Rappresenta i 47 parlamenti nazionali ed è composto da 636 membri: 318 titolari e 318 supplenti;
  2. Comitato dei ministri (è formato da 47 Ministri degli Esteri o dai loro rappresentanti permanenti a Strasburgo con la qualifica di Ambasciatori;
  3. Commissione europea dei diritti dell’uomo (organo di prima istanza);
  4. Corte europea dei diritti dell’uomo

Dopo il 1998 il Consiglio d’Europa è composto solo da 3 organi. È stata soppressa la Commissione europea dei diritti dell’uomo (Protocollo n. 11 del Consiglio d’Europa del 1994 ratificato da tutti gli stati membri e divenuto esecutivo nel 1998). Quest’ultimo organo svolgeva la funzione di giudice di primo grado. Era possibile impugnare le sentenze della Commissione davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Oggi unico organo a svolgere la funzione giurisdizionale all’interno del Consiglio d’Europa è la Corte di Strasburgo. In luogo della Commissione europea per i diritti umani, è stato istituito nel 1999 l’organo del Commissario per i diritti umani il cui compito è quello di promuovere la diffusione della cultura dei diritti umani all’interno dei paesi membri del Consiglio d’Europa.

La CEDU è formata da tanti giudici permanenti quanti sono gli Stati membri del Consiglio d’Europa (n. 47) (art.20 CEDU). I giudici sono nominati dalla Assemblea parlamentare su designazione dei governi degli Stati membri.

I giudici permanenti rimangano in carica per sei anni e sono rieleggibili per un secondo mandato (art. 23 CEDU). I giudici hanno provenienze che vanno dalla magistratura alla carriera universitaria fino alle Nazioni Unite.

I giudici svolgono la loro funzione giurisdizionale attraverso organi collegiali diversamente composti a seconda dell’oggetto del giudizio (petitum):

  • a) per i ricorsi individuali manifestamente irricevibili data l’estrema chiarezza della non recevibilità (Protocollo n.14/2004) la decisione può essere adottata da un giudice unico.
  • b) Per la selezione dei ricorsi manifestamente irricevibili (art. 27 CEDU) o per ricorsi ricevibili, ma che comportano una tenue vìolazione del diritto del ricorrente (Protocollo n.14/2004), nonché per i ricorsi ritenuti fondati ma ripetitivi in quanto già oggetto di giurisprudenza ben consolidata (Protocollo n.14/2004), i giudici svolgono l’attività giurisdizionale in forma di Comitato. I Comitati sono composti da 3 giudici.
  • c) Per la selezione dei ricorsi ricevibili (art. 27 CEDU) i giudici svolgono l’attività giurisdizionale in forma di Camere o Sezioni. Le Camere o Sezioni sono composte da 7 giudici, tra cui il giudice di nazionalità dello Stato convenuto. La ratio delle modifiche apportate dal Protocollo 14/2004 sta nella esigenza di accelerare i tempi processuali, anche se l’applicazione del principio de mininimis non curat praetor – utile a snellire l’attività della Corte – potrebbe comportare un più basso livello di tutela giurisdizionale dei diritti e della libertà sanciti nella Convenzione del 1950.
  • d) Per le cause più delicate e di maggiore importanza la Corte giudica attraverso l’organo della (art. 31 CEDU) formata da 17 giudici, tra cui obbligatoriamente devono essere presenti: il Presidente della Sezione di prima istanza, che ha pronunciato la sentenza impugnata davanti alla Grande Camera, e il giudice che ha la nazionalità dello Stato convenuto.

Quando si riunisce e chi può adire la Grande Camera?
Tenendo conto che il ricorso può essere fatto dalle parti entro tre mesi dalla pronuncia di prima istanza (passato questo lasso di tempo la sentenza diventa vincolante) la può essere adita:

  1. nel caso in cui venga meno la giurisdizione della Sezione di prima istanza;
  2. quando v’è un problema interpretativo oppure nel caso in cui una delle due parti investa la (così è avvenuto per la sentenza Lautzi).

I problemi legati ai simboli religiosi e alla libertà religiosa sono tra i più dibattuti Affinché la Grande Camera possa essere adita è necessario che quest’ultima accetti di essere investita della causa. La sentenza della è definitiva.

I provvedimenti giurisdizionali che i giudici pronunciano possono assumere tre diverse forme:

  • forma declaratoria (provvedimento a carattere dichiarativo);
  • deterrente (provvedimento che obbliga lo stato ad integrare una norma o a depennarla);
  • forma risarcitoria di natura pecuniaria.

Forma declaratoria/deterrente
La Corte dichiara con sentenza il contrasto della normativa interna dello Stato convenuto rispetto alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. L’illegittimità della normativa di diritto interno può avere natura commissiva o omissiva. Nel primo caso, la incompatibilità deriva dalla presenza di norme contrastanti con la Convenzione, nel secondo dalla mancanza di norme poste a tutela dei diritti sanciti dalla Convenzione. In questi casi spetta allo Stato condannato assumere i provvedimenti necessari per eliminare le conseguenze derivanti dalla vìolazione della Convenzione e intervenire sul sistema normativo in modo da renderlo compatibile alla Convenzione (si dichiara l’esistenza di incompatibilità, ma non si obbliga lo Stato ad applicarla. Si pensi alla sentenza Kokkinakis, ove la Corte, pur rilevando che la normativa del diritto interno è incompatibile, ha lasciato ampia discrezionalità allo Stato (Grecia). In alcuni casi, la Corte obbliga gli Stati ad intervenire legislativamente a modificare il sistema normativo o abrogando norme in contrasto con la Convenzione o obbligando a introdurre norme, la cui mancanza non garantisce la tutela di determinati diritti o libertà (art. 46 CEDU). In questo caso la sentenza di condanna è trasmessa dalla Corte al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l’esecuzione (art.46 CEDU).

Forma risarcitoria
A volte la Corte può condannare lo Stato convenuto al pagamento di una indennità pecuniaria a favore della persona fisica o giuridica che ha subito la lesione del proprio diritto o libertà. La somma dovrà essere corrisposta dallo Stato condannato.

La sentenza diviene definitiva se trascorrono tre mesi dalla pronuncia di prima istanza senza che abbia luogo la impugnazione o qualora sulla questione si sia pronunciata la Grande Camera o infine, se le parti dichiarano di non voler ricorrere alla Grande Camera (art. 44 CEDU).

Chi può adire la CEDU?

Possono adire la Corte europea dei diritti dell’uomo mediante ricorso:

  • ogni persona fisica;
  • ogni organizzazione non governativa;
  • ogni gruppo di privati che ritiene che uno degli Stati contraenti abbia leso uno dei diritti previsti nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Quali sono le condizioni per adire la CEDU?

I presupposti normativi che devono essere soddisfatti affinché il ricorso sia ricevibile sono previsti dall’art. 35 CEDU e sono i seguenti:

  • la tutela giurisdizionale interna ai singoli Stati deve essere esaurita. Ovvero non è più possibile adire alcun giudice dell’ordinamento interno dello Stato per ottenere la tutela giurisdizionale per la presunta lesione dei diritti previsti dalla Convenzione.
  • il ricorso non può essere anonimo;
  • deve essere rispettato il principio del divieto di litispendenza, ovvero non è possibile che lo stesso giudizio penda davanti ad un altro giudice internazionale;
  • il ricorso non deve presentare il carattere della abusività, ovvero, non deve essere formulato utilizzando frasi scurrili o offensive;
  • le vìolazioni denunciate devono essere anteriori alla entrata in vigore della Convenzione nell’ordinamento dello Stato membro;
  • le vìolazioni dei diritti previsti dalla Convenzione devono essere avvenute entro i confini dello Stato aderente;
  • deve sussistere il diritto di azione da parte delle persone giuridiche o persone fisiche che hanno dichiarato la presunta vìolazione dei propri diritti;
  • i diritti o le libertà vìolate devono rientrare tra quelli previsti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI DELLA CORTE DI STRASBURGO IN MATERIA DI LIBERTÀ RELIGIOSA.

La giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di diritto alla libertà religiosa prima e dopo il 1993.

Prima del 1993: la Corte ha affrontato il problema della libertà religiosa non applicando quasi mai l’art. 9, o perché riteneva che non si configurasse l’ipotesi di lesione della norma suddetta, o perché nel tutelare l’istanza del ricorrente ricorreva, in via analogica, ad altri diritti soggettivi che presentavano una giurisprudenza più consolidata e chiara.

In altri termini, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo fino al 1993 in materia di libertà religiosa si è formata principalmente o attraverso pronunce di irricevibilità, ovvero per mezzo di decisioni di prima istanza negatrici della fondatezza dei ricorsi inoltrati, o, attraverso il ricorso al metodo analogico, ossia facendo riferimento alla giurisprudenza relativa ad altri diritti fondamentali della persona e al diritto di eguaglianza.

Dopo il 1993: a partire da questa data cambia l’orientamento giurisprudenziale della Corte di Strasburgo (fu la sentenza Kokkinakis c. Grecia 25 maggio 1993 a segnare un punto di svolta).

Il giudice del Consiglio d’Europa comincia ad affrontare il problema della libertà religiosa attraverso pronunce di ricevibilità senza più ricorrere al metodo analogico. Quali sono i caratteri peculiari della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di libertà religiosa?

Essa si è sviluppata intorno ad alcune linee direttrici:

  • proselitismo;
  • tutela della sensibilità religiosa delle maggioranze;
  • libertà religiosa dei gruppi di minoranza;
  • partiti politici a ispirazione religiosa e principio di laicità;
  • libertà di organizzazione interna dei gruppi confessionali;
  • nullità matrimoniale e diritti di difesa;
  • simboli religiosi, principio di laicità e ordine pubblico.

Proselitismo: sentenza leader
Kokkinakis c. Grecia (25 maggio 1993).

Ritenuto in fatto. Condanna a pena detentiva di alcuni cittadini greci appartenenti alla Congregazione cristiana del Testimoni di Geova per proselitismo illecito. Il divieto di proselitismo in Grecia è previsto dall’art 13 comma 2 della Costituzione del 1975 tradotto in norma penale dall’art. 4 l. 1363 del 1938 poi modificato dall’art. 2 l. 1672 del 1939.

Considerato in diritto. La Corte ha ritenuto ricevibile il ricorso di Kokkinakis e ha pronunciato una sentenza di condanna nei confronti della Grecia per vìolazione dell’art. 9 CEDU. Tuttavia La Corte elabora una distinzione fra proselitismo lecito e proselitismo illecito, legittimando in parte la norma penale greca del 1939. In tal senso, ogni forma di proselitismo che comporti di modificare i convincimenti religiosi di una persone sia mediante qualsiasi forma di promessa di sostegno morale o materiale, sia mediante mezzi fraudolenti, sia abusando della inesperienza o della fiducia della persona che si intende convertire, sia approfittando del suo bisogno, della sua debolezza intellettuale o della sua ingenuità deve considerarsi illecita.

Considerazioni critiche in merito alla sentenza:
1) L’oggetto di tutela è il diritto di libertà religiosa individuale;
2) la Corte non ha voluto pronunciare una decisione di natura declaratoria/deterrente non incidendo più di tanto sull’assetto normativo dell’ordinamento greco e riconoscendo legittima la perseguibilità penale di forme illecite di proselitismo. In tal senso, la Corte ha voluto rispettare l’assetto di politica ecclesiastica dello Stato convenuto.

Cosa significa tutto ciò? La sentenza, ha spiegato il docente, va letta alla luce del rapporto fra «margine statale di apprezzamento» e «principio di proporzionalità». In questo caso, la Corte ha riconosciuto allo Stato greco un ampio «margine statale di apprezzamento» in quanto ha legittimato:

a) le restrizioni greche alla clausola di legalità (la Corte ha glissato sul fatto che il reato di proselitismo lasci amplissima discrezionalità interpretativa in materia proselitismo illecito, e soprattutto istituisca un privilegio discriminatorio in favore dei fedeli ortodossi); inoltre la Corte ha considerato legittima la distinzione fra un proselitismo lecito e uno illecito. Questa scelta in omaggio al principio del «margine statale di apprezzamento» è gravida di conseguenze negative. Infatti con essa si corre il rischio di limitare gravemente il diritto individuale di libertà religiosa che spesso si manifesta in forme di forte partecipazione emotiva e partecipata al fine di convincere l’interlocutore della bontà delle proprie argomentazioni; limiterebbe quell’aspetto della libertà religiosa individuale caratterizzato dalla libertà di cambiare religione o pensiero (ius poenitendi);

In sostanza la decisione ha censurato, non il principio costituzionale greco né la norma penale, ma la semplice sussistenza del presupposto di fatto. Non è il divieto di proselitismo a vìolare la Convenzione, ma la sua corretta applicazione.

Tutela della sensibilità religiosa delle maggioranze:
Otto Preminger Institue c. Austria (20 settembre 1994)

Ritenuto in fatto. L’Istituto Otto Preminger di Innsbruck proietta il film dal titolo: Il Concilio d’amore del regista austriaco Schroeter, tratto da un romanzo di Oskar Panizza. Il film descrive, in chiave caricaturale, la comunità cattolica e i suoi principi teologici, muovendo severe critiche ad alcune modalità di interazione fra il potere religioso e il potere politico. L’istituto organizzatore del ciclo di proiezioni, consapevole del contenuto dell’opera, assunse alcune precauzioni: stabilì che l’ingresso fosse a pagamento; stabilì il limite della maggiore età per il diritto d’accesso alla visione; programmò la visione nelle ore serali.

Nonostante queste precauzioni la diocesi di Innsbruck ritenne che la proiezione del film avesse leso il sentimento religioso e i convincimenti di natura spirituale dei cittadini tirolesi e, pertanto, agì giudizialmente denunciando l’Istituto Otto Preminger per vilipendio delle dottrine religiose ex art. 188 c.p. austriaco. I giudici austriaci, ritenendo leso l’art. 188 c.p., stabilirono il sequestro della pellicola. Esauriti i gradi di giudizio all’interno dell’ordinamento austriaco l’Istituto O.P. fece ricorso a Strasburgo.

Considerato in diritto. Essendo la causa precedente al 1998, l’organo di primo grado investito della causa fu la Commissione europea dei diritti dell’uomo. Quest’ultima ritenne fondate le argomentazioni della parte ricorrente, riconoscendo leso l’art. 10 CEDU e ritenendo che le precauzioni prese, la diffusione dell’opera di Oskar Panizza in Austria non giustificavano provvedimenti così restrittivi della libertà di espressione e di pensiero.

La decisione di prima istanza della Commissione fu impugnata davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo. La Corte mutò decisamente orientamento giurisprudenziale. Ritenne fondata la giurisprudenza del giudice austriaco, non individuando in essa una vìolazione dell’art. 10 CEDU. La decisione del giudice austriaco si era posta come obiettivo di tutelare il sentimento religioso della maggioranza della popolazione e di proteggere l’ordine pubblico costituzionale e i diritti di libertà altrui.

Inoltre, la Corte nella sentenza distingue tra l’attività di critica di una fede religiosa e le modalità con cui questa ha luogo. Si evidenzia al riguardo la illegittimità di forme di critica che comportino l’offesa del sentimento religioso dei cittadini e le convinzioni di natura spirituale. Utilizzando il parametro della «legittima indignazione» previsto dall’art. 188 del codice penale austriaco, la Corte non ha riscontrato la lesione dell’art 10 CEDU e ha ritenuto legittimo il provvedimento di confisca e sequestro della pellicola.

Considerazioni critiche in merito alla sentenza

1) Non si è optato per il «principio di bilanciamento», ovvero per il «principio di proporzionalità». Anziché ricercare un punto di equilibrio fa libertà religiosa della maggioranza e libertà di espressione delle minoranze si è privilegiata la libertà religiosa della maggioranza sacrificando, nell’interesse di questa, la libertà di espressione e di pensiero della minoranza. In tal senso, non solo v’è stato da parte della Corte un pieno riconoscimento del «margine statale di apprezzamento», ma lo stesso «principio di proporzionalità» è stato utilizzato per rafforzare la normativa statuale a danno della minoranza. Aspetto bene evidenziato nella relazione di minoranza dei giudici dissenzienti.

2) La Corte non ha verificato l’effettivo grado di adesione della popolazione tirolese alla sensibilità religiosa ritenuta lesa, presumendo che essa fosse per la più parte cattolica;

3) la Corte conferma di argomentare le proprie decisioni tenendo conto del tipo di sistema di rapporti fra Stato e confessioni religiose vigenti negli Stati convenuti. In tal senso, la Corte agisce nel rispetto della sovranità degli Stati membri rafforzando la clausola del «margine statale di apprezzamento».

Libertà religiosa dei gruppi di minoranza:
Cha’are Shalom Ve Tsedek c. Francia (27 giugno 2000)

Ritenuto in fatto. L’associazione liturgica ebraica Cha’are Shalom Ve Tsedek aveva richiesto e si era vista negata dalla autorità amministrativa francese l’autorizzazione, ex art. 276 codice rurale e art. 10 decreto 791 del 1980, ad accedere ai mattatoi pubblici per poter effettuare l’abbattimento rituale degli animali secondo le regole previste dal diritto ebraico.

L’associazione riteneva di essere stata vittima di una discriminazione, in quanto la stessa autorizzazione era stata invece concessa alla Associazione concistoriale ebraica di Parigi. Il ricorrente giustificava, ulteriormente, il fatto di essere stato discriminato in quanto possedeva il medesimo status giuridico di ente ecclesiastico della Associazione concistoriale ebraica di Parigi.

Inoltre adduceva due argomenti a favore del proprio ricorso: innanzitutto il maggiore rigore nel rispettare le regole ebraiche dell’abbattimento rituale rispetto alle procedure poste in essere dalla Associazione concistoriale, in seconda battuta il sospetto che la mancata autorizzazione amministrativa fosse dovuta ad una attività di pressione da parte dell’ente ebraico concorrente in ragione della riduzione di introiti che sarebbero derivati dalla concorrenza sul mercato della carne kosher.

Considerato in diritto. In prima istanza la Commissione europea per i diritti umani si era pronunciata a favore della parte ricorrente. La Corte di Strasburgo, invece, chiamata a pronunciarsi in via definitiva, ha ritenuto infondata la presunta lesione dell’art. 9 CEDU sostenuta dalla parte ricorrente. La Corte, dunque, ha applicato il «principio del margine di apprezzamento statale», riconoscendo infondato il ricorso fatto da Cha’are Shalom.

Le argomentazioni addotte sono state le seguenti:

 

  • la Corte si è trovata d’accordo con la parte ricorrente in merito ad alcuni punti: a) ha riconosciuto all’ associazione ricorrente la natura di ente religioso;
  • ha riconosciuto il diritto della associazione ricorrente di esercitare le facoltà inerenti il diritto di libertà religiosa;
  • non ha negato che il diritto di libertà religiosa possa manifestarsi anche attraverso pratiche e riti particolari come gli abbattimenti rituali.

 

2) la Corte, tuttavia, non ha ritenuto si configurasse l’esistenza della vìolazione dell’art. 9 CEDU per una serie di ragioni:

a) il diritto degli appartenenti alla associazione ricorrente non hanno subito, in conseguenza dell’atto amministrativo, alcuna limitazione al diritto di alimentarsi con carne kosher;

b) le modalità di abbattimento rivendicate dalla associazione ricorrente sono sostanzialmente identiche a quelle della Associazione concistoriale ebraica di Parigi;

c) le ragioni del ricorso sono motivate da questioni interne alla comunità ebraica;

d) la Corte ha ritenuto legittima la scelta fatta dalla amministrazione francese nell’indicare quale ente religioso autorizzare per l’abbattimento rituale in quanto rientrante nell’ambito del diritto all’apprezzamento discrezionale, che la Convenzione riconosce agli Stati contraenti nella regolamentazione concreta delle modalità di fruizione delle libertà fondamentali.

 

Considerazioni critiche in merito alla sentenza:

1)      La decisione si muove fuori della ratio della l. 9 dicembre 1905.

Infatti, lo Stato non dovrebbe intrattenere rapporti privilegiati con le diverse organizzazioni religiose. Il fatto che l’abbia fatto induce a credere che l’autorità amministrativa francese abbia fatto prevalere un criterio politico su uno tecnico.

2) la Corte sembra contraddirsi. Legittimando l’atto amministrativo, ha precluso ad un gruppo religioso la possibilità di effettuare la macellazione rituale riconosciuta dalla stessa Corte come forma di manifestazione di libertà religiosa. Dunque la Corte ha legittimato una limitazione ingiustificata della libertà religiosa.

In sostanza, da questa sentenza emerge l’interrogativo delicato circa la liceità di intervenire per tutelare posizioni diverse all’interno di una stessa confessione religiosa (in questo caso, quella ebraica).

 

 

 

4) Partiti politici a ispirazione religiosa e principio di laicità:

 Refah Partisi  c. Turchia  (13 febbraio 2003)

 

 Ritenuto in fatto. La Corte costituzionale turca nel 1998 aveva decretato lo scioglimento del partito turco Refah Partisi, i cui programmi e la cui azione erano in contrasto con il principio costituzionale di laicità, in quanto finalizzati ad instaurare un regime teocratico fondato sulla legge islamica e sugli statuti personali delle altre confessioni religiose. I rappresentanti del partito hanno adito la Corte di Strasburgo impugnando la sentenza di scioglimento in quanto lesiva innanzitutto dell’art. 11 CEDU (libertà di riunione e di  associazione) e in subordine delle norme contenute negli articoli 9, 10, 14 della CEDU). Nell’argomentare l’impugnazione della sentenza della Corte costituzionale, i ricorrenti sostenevano che il Partito non aveva mai avallato la negazione del principio di laicità e, a riprova di ciò, si adduceva il fatto che nessuna delle dichiarazioni o dei comportamenti dei dirigenti del partito dimostravano la volontà di ledere il principio costituzionale di laicità. Inoltre si evidenziava che né nell’atto fondativo del Partito, né nel programma politico era prevista la applicazione in forma esclusiva della legge islamica o degli statuti personali delle altre confessioni religiose.

 

 Considerato in diritto.  La Corte ha voluto verificare in primo luogo la fondatezza della presunta vìolazione dell’art. 11 CEDU, subordinando all’accertamento di quest’ultima la verifica della eventuale lesione degli altri articoli CEDU, tra cui gli artt. 9, 10 e 14.

La Corte non ha ritenuto che la Corte costituzionale turca abbia leso l’art.11 CEDU e, pertanto, ha ritenuto legittimo lo scioglimento del partito e ha rispettato la sovranità dello Stato

Le ragioni per cui non si è ritenuto vìolato l’art. 11 sono addebitali al fatto che il Partito Refah Partisi, in base alle dichiarazioni raccolte dal giudice costituzionale e dalla Corte di Strasburgo, prevedeva un sovvertimento dell’ordine democratico al fine di affermare principi non compatibili con una democrazia. In particolare, la Corte ha ritenuto che l’introduzione nel sistema giuridico turco degli statuti personali delle diverse confessioni religiose avrebbe comportato una discriminazione all’interno del sistema giuridico turco lesiva dell’art. 14 CEDU, mentre l’introduzione della legge islamica avrebbe comportato la vìolazione del principio di laicità.

Al contrario, modifiche costituzionali sono possibili solo se fatte secondo le procedure previste dalla legge e al fine di affermare principi democraticamente compatibili.

Considerazioni critiche in merito alla sentenza:

1) la Corte di Strasburgo ha elaborato la decisione non esaminando lo statuto e il programma del partito, ma basandosi esclusivamente sui comportamenti e le dichiarazioni del presidente del partito e di altri sui esponenti.

2) La Corte ha pronunciato una sentenza essenzialmente politica, animata dalla esigenza di proteggere la democrazia turca dalle spinte islamiste. Qui è centrale il problema dell’eventuale ingresso della Turchia nella UE, il ruolo di tale Stato nella Nato, la questione dell’Islam in Europa.

Di qui, il generarsi di un paradosso di non poco conto: si tutela la maggioranza in Turchia – dunque si difende un certo tipo di Islam – ma si va a colpire la minoranza, che è quella islamica in Europa.

 

 

5) Libertà di organizzazione interna dei gruppi confessionali:

 Hassan  c. Bulgaria  (26 ottobre 2000) e Serif c. Grecia (14 dicembre 1999).

 

  Ritenuto in fatto.  In entrambi i casi l’autorità governativa pretendeva condizionare la nomina del muftì. Il muftì ricorrente era colui che era stato prescelto dalla comunità islamica, ma la cui elezione era stata annullata con provvedimento amministrativo perché sgradito alla autorità pubblica.

 

 Considerato in diritto.  La Corte ha ritenuto illegittimo il provvedimento di annullamento dell’elezione del muftì prescelto dalla comunità islamica, contestando l’ingerenza governativa negli interna corporis del gruppo religioso.

 

Considerazioni critiche in merito alla sentenza:

1) La Corte ha ribadito il divieto di ingerenza della autorità statale nella organizzazione interna delle confessioni religiose.

2) L’autonomia statutaria delle confessioni religiose è espressione del diritto di libertà religiosa ex art. 9 CEDU. I rappresentanti dei gruppi religiosi devono essere scelti liberamente dagli organi delle confessioni religiose secondo le norme statuarie interne.

 

 

6) Nullità matrimoniale e diritti di difesa:

 Pellegrini  c. Italia  (20 luglio 2001)

 

  Ritenuto in fatto.  Si tratta del caso di una cittadina italiana che lamentava che gli organi giurisdizionali italiani, in fase di delibazione, avessero omesso di verificare se, nel corso della procedura davanti al giudice ecclesiastico, il principio del contraddittorio fosse stato rispettato ai sensi di quanto previsto dall’art. 6 CEDU.

 

 Considerato in diritto.  La Corte ha preso atto che, oltre all’art. 6 CEDU, anche la normativa concordataria prevede che gli effetti civili delle sentenze di nullità canonica siano subordinate al rispetto degli stessi diritti al contraddittorio previsti dall’ordinamento giuridico italiano.

Pertanto, la Corte ha riconosciuto la fondatezza del ricorso ritenendo che il processo canonico non garantiva sufficientemente i requisiti del giusto processo.

Considerazioni critiche in merito alla sentenza:

1)     La Corte ha voluto sottolineare la natura di controllo severo della Corte d’appello nel deliberare sulle sentenze di nullità.

2)     La Corte ha ribadito il principio, già sancito nell’ordinamento italiano dalla sentenza 31/1971 della Corte costituzionale, in merito alla subordinazione delle norme concordatarie ai principi sanciti nella Convenzione del 1950.

3)     La decisione  riduce il «margine di apprezzamento statale» e sembra interferire nella normativa interna dello Stato in  materia di rapporti fra Stato e confessioni religiose.

 

7) Simboli religiosi e principio di laicità:

 Lautsi  c. Italia  (3 novembre 2009)

 

  Ritenuto in fatto. Presenza del crocifisso nella scuola pubblica « Istituto comprensivo statale Vittorino da Feltre » ad Abano Terme.

La signora Lautsi, cittadina italiana di origini finlandesi, ritiene che la presenza del crocifisso nell’aula frequentata dai figli di rispettivamente 11 e 13 anni, vìoli due punti:

a)      la libertà e autonomia educativa dei genitori (per la ricorrente ciò implicava l’intenzione di educare i propri figli secondo il principio di laicità);

b)      la vulnerabilità psicologica dei ragazzi, con la conseguente ricaduta negativa della presenza di quel simbolo religioso in classe.

Sia il Tar veneto sia il Consiglio di Stato (adito dalla ricorrente dopo che la Corte Costituzionale si era dichiarata incompetente) rigettano il ricorso, sostenendo il Tar che che «il crocifisso è da ritenersi nel contempo simbolo della storia e della cultura italiana e di conseguenza dell’identità italiana e simbolo dei principi di eguaglianza, libertà e tolleranza e anche della laicità dello Stato». Sulla stessa posizione si allinea il Consiglio di Stato motivando che «il crocifisso era divenuto uno dei valori laici della Costituzione italiana e rappresentava i valori della vita civile».

 

Data l’importanza della sentenza, riportiamo qui di seguito il testo francese:

 La requérante réside à Abano Terme et a deux enfants, Dataico et Sami Albertin. Ces derniers, âgés respectivement de onze et treize ans, fréquentèrent en 2001-2002 l'école publique « Istituto comprensivo statale Vittorino da Feltre », à Abano Terme. Les salles de classe avaient toutes un crucifix, ce que la requérante estimait contraire au principe de laïcité selon lequel elle souhaitait éduquer ses enfants. Elle souleva cette question au cours d'une réunion organisée le 22 avril 2002 par l'école et fit valoir que, selon la Cour de cassation (arrêt  no 4273 du 1er mars 2000), la présence d'un crucifix dans les salles de vote préparées pour les élections politiques avait déjà été jugée contraire au principe de laïcité de l'Etat.

 

Le 27 mai 2002, la direction de l'école décida de laisser les crucifix dans les salles de cours.

 

Le 23 juillet 2002, la requérante attaqua cette décision devant le tribunal administratif de la région de Vénétie. S'appuyant sur les articles 3 et 19 de la Constitution italienne et sur l'article 9 de la Convention, elle alléguait la vìolation du principe de laïcité. En outre, elle dénonçait la vìolation du principe d'impartialité de l'administration publique (art. 97 de la Cost). Ainsi, elle demandait au tribunal de saisir la Cour constitutionnelle de la question de constitutionnalité.

 

Le 14 janvier 2004, le tribunal administratif de Vénétie estima, compte tenu du principe de laïcité (articles 2, 3, 7, 8, 9, 19 et 20 de la Constitution) que la question de constitutionnalité n'était pas manifestement mal fondée et dès lors saisit la Cour constitutionnelle. La requérante se constitua partie dans la procédure devant la Cour constitutionnelle.

 

Par une ordonnance du 15 décembre 2004 no 389, la Cour constitutionnelle s'estima incompétente étant donné que les dispositions litigieuses n'étaient pas incluses dans une loi mais dans des règlements, qui n'avaient pas force de loi (paragraphe 26 ci-dessous). La procédure devant le tribunal administratif reprit.

 

 

Par un jugement du 17 mars 2005 no 1110, le tribunal administratif rejeta le recours de la requérante. Il estimait que le crucifix était à la fois le symbole de l'histoire et de la culture italiennes, et par conséquent de l'identité italienne, et le symbole des principes d'égalité, de liberté et de tolérance ainsi que de la laïcité de l'Etat

 

La requérante introduisit un recours devant le Conseil d'Etat.

 

Par un arrêt du 13 février 2006, le Conseil d'Etat rejeta le recours, au motif que la croix était devenue une des valeurs laïques de la Constitution italienne et représentait les valeurs de la vie civile.

 

 

 Considerato in diritto. 

La cittadina italiana Lautsi adisce la Corte di Strasburgo. Questa riunita in una camera composta da: Françoise Tulkens (presidente, Ireneu Cabral Barreto, Vladimiro Zagrebelsky, Danutė Jočienė, Dragoljub Popović, András Sajó, Işıl Karakaş (giudici) Sally Dollé (cancelliere di sezione) dichiara, espressamente, che il crocifisso è un simbolo religioso e condanna l’Italia. Il governo italiano impugna la sentenza facendo ricorso alla Grande Camera.

 

 

 

Posizione della parti:

Il ricorrente.

 

Allègue en son nom et au nom de ses enfants que l'exposition de la croix dans l'école publique fréquentée par ceux-ci a constitué une ingérence incompatible avec son droit de leur assurer une éducation et un enseignement conformes à ses convictions religieuses et philosophiques au sens de l'article 2 du Protocole no 1, disposition qui est libellée comme suit 

 

Par ailleurs, la requérante allègue que l'exposition de la croix a méconnu également sa liberté de conviction et de religion protégée par l'article 9 de la Convention, qui énonce 

 

Les dispositions en cause sont l'héritage d'une conception confessionnelle de l'Etat qui se heurte aujourd'hui au devoir de laïcité de celui-ci et méconnaît les droits protégés par la Convention. Il existe une « question religieuse » en Italie, car, en faisant obligation d'exposer le crucifix dans les salles de classe, l'Etat accorde à la religion catholique une position privilégiée qui se traduirait par une ingérence étatique dans le droit à la liberté de pensée, de conscience et de religion de la requérante et de ses enfants et dans le droit de la requérante d'éduquer ses enfants conformément à ses convictions morales et religieuses, ainsi que par une forme de discrimination à l'égard des non-catholiques.

 

Selon la requérante, le crucifix a en réalité, surtout et avant tout, une connotation religieuse. Le fait que la croix ait d'autres « clés de lecture » n'entraîne pas la perte de sa principale connotation, qui est religieuse.

 

Privilégier une religion par l'exposition d'un symbole donne le sentiment aux élèves des écoles publiques – et notamment aux enfants de la requérante – que l'Etat adhère à une croyance religieuse déterminée. Alors que, dans un Etat de droit, nul ne devrait percevoir l'Etat comme étant plus proche d'une confession religieuse que d'une autre, et surtout pas les personnes qui sont plus vulnérables en raison de leur jeune âge.

 

La notion de laïcité signifie que l'Etat doit être neutre et faire preuve d'équidistance vis-à-vis des religions, car il ne devrait pas être perçu comme étant plus proche de certains citoyens que d'autres

 

Il Governo dello Stato convenuto:

Si la croix est certainement un symbole religieux, elle revêt d'autres significations. Elle aurait également une signification éthique, compréhensible et appréciable indépendamment de l'adhésion à la tradition religieuse ou historique car elle évoque des principes pouvant être partagés en dehors de la foi chrétienne (non-violence, égale dignité de tous les être humains, justice et partage, primauté de l'individu sur le groupe et importance de sa liberté de choix, séparation du politique du religieux, amour du prochain allant jusqu'au pardon des ennemis). En conclusion, les valeurs démocratiques d'aujourd'hui plongeraient leurs racines dans un passé plus lointain, celui du message évangélique. Le message de la croix serait donc un message humaniste, pouvant être lu de manière indépendante de sa dimension religieuse, constitué d'un ensemble de principes et de valeurs formant la base de nos démocraties.

 

La croix renvoyant à ce message, elle serait parfaitement compatible avec la laïcité et accessible à des non-chrétiens et des non-croyants, qui pourraient l'accepter dans la mesure où elle évoquerait l'origine lointaine de ces principes et de ces valeurs. En conclusion, le symbole de la croix pouvant être perçu comme dépourvu de signification religieuse, son exposition dans un lieu public ne constituerait pas en soi une atteinte aux droits et libertés garantis par la Convention.

 

Enfin, la liberté d'éduquer les enfants conformément aux convictions des parents n'est pas en cause : l'enseignement en Italie est totalement laïc et pluraliste, les programmes scolaires ne contiennent aucune allusion à une religion particulière et l'instruction religieuse est facultative.

 

Les autorités nationales jouissent d'une grande marge d'appréciation pour des questions aussi complexes et délicates, étroitement liées à la culture et à l'histoire. L'exposition d'un symbole religieux dans des lieux publics n'excéderait pas la marge d'appréciation laissée aux Etats.

 

Le Gouvernement ne soutient pas qu'il soit nécessaire, opportun ou souhaitable de maintenir le crucifix dans les salles de classe, mais le choix de l'y maintenir ou non relèverait du politique et répondrait donc à des critères d'opportunité, et non pas de légalité.

En conclusion, le Gouvernement demande à la Cour de rejeter la requête.

 

La decisione della Corte

 Appréciation de la Cour

(a) Il faut lire les deux phrases de l'article 2 du Protocole no 1 à la lumière non seulement l'une de l'autre, mais aussi, notamment, des articles 8, 9 et 10 de la Convention.

 

(b) C'est sur le droit fondamental à l'instruction que se greffe le droit des parents au respect de leurs convictions religieuses et philosophiques et la première phrase ne distingue, pas plus que la seconde, entre l'enseignement public et l'enseignement privé. La seconde phrase de l'article 2 du Protocole no 1 vise à sauvegarder la possibilité d'un pluralisme éducatif, essentiel à la préservation de la « société démocratique » telle que la conçoit la Convention.

 

(c)  Le respect des convictions des parents doit être possible dans le cadre d'une éducation capable d'assurer un environnement scolaire ouvert et favorisant l'inclusion plutôt que l'exclusion, indépendamment de l'origine sociale des élèves, des croyances religieuses ou de l'origine ethnique. L'école ne devrait pas être le théâtre d'activités missionnaires ou de prêche ; elle devrait être un lieu de rencontre de différentes religions et convictions philosophiques, où les élèves peuvent acquérir des connaissances sur leurs pensées et traditions respectives.

 

(d)   l'Etat,  veille à ce que les informations ou connaissances figurant dans les programmes soient diffusées de manière objective, critique et pluraliste. Elle lui interdit de poursuivre un but d'endoctrinement qui puisse être considéré comme ne respectant pas les convictions religieuses et philosophiques des parents. Là se place la limite à ne pas dépasser.

 

(e) Le respect des convictions religieuses des parents et des croyances des enfants implique le droit de croire en une religion ou de ne croire en aucune religion. La liberté de croire et la liberté de ne pas croire (la liberté négative) sont toutes les deux protégées par l'article 9 de la Convention

 

(f) Le devoir de neutralité et d'impartialité de l'Etat est incompatible avec un quelconque pouvoir d'appréciation de la part de celui-ci quant à la légitimité des convictions religieuses ou des modalités d'expression de celles-ci. Dans le contexte de l'enseignement, la neutralité devrait garantir le pluralisme

 

  Application de ces principes

 

Pour la Cour, ces considérations conduisent à l'obligation pour l'Etat de s'abstenir d'imposer, même indirectement,des croyances, dans les lieux où les personnes sont dépendantes de lui ou encore dans les endroits où elles sont particulièrement vulnérables. La scolarisation des enfants représente un secteur particulièrement sensible car, dans ce cas, le pouvoir contraignant de l'Etat est imposé à des esprits qui manquent encore (selon le niveau de maturité de l'enfant) de la capacité critique permettant de prendre distance par rapport au message découlant d'un choix préférentiel manifesté par l'Etat en matière religieuse.

 

la Cour doit examiner la question de savoir si l'Etat défendeur, en imposant l'exposition du crucifix dans les salles de classe, a veillé dans l'exercice de ses fonctions d'éducation et d'enseignement à ce que les connaissances soient diffusées de manière objective, critique et pluraliste et a respecté les convictions religieuses et philosophiques des parents, conformément à l'article 2 du Protocole no 1.

 

 la nature du symbole religieux et son impact sur des élèves d'un jeune âge, en particulier les enfants de la requérante. En effet, dans les pays où la grande majorité de la population adhère à une religion précise, la manifestation des rites et des symboles de cette religion, sans restriction de lieu et de forme, peut constituer une pression sur les élèves qui ne pratiquent pas ladite religion ou sur ceux qui adhèrent à une autre religion

 

Le Gouvernement justifie l'obligation (ou le fait) d'exposer le crucifix en se rapportant au message moral positif de la foi chrétienne, qui transcende les valeurs constitutionnelles laïques, au rôle de la religion dans l'histoire italienne ainsi qu'à l'enracinement de celle-ci dans la tradition du pays.

 

De l'avis de la Cour, le symbole du crucifix a une pluralité de significations parmi lesquelles la signification religieuse est prédominante.

 

L'intéressée voit dans l'exposition du crucifix le signe que l'Etat se range du côté de la religion catholique. Telle est la signification officiellement retenue dans l'Eglise catholique, qui attribue au crucifix un message fondamental. Dès lors, l'appréhension de la requérante n'est pas arbitraire.

 

La Cour reconnaît que, comme il est exposé, il est impossible de ne pas remarquer le crucifix dans les salles de classe. Dans le contexte de l'éducation publique, il est nécessairement perçu comme partie intégrante du milieu scolaire et peut dès lors être considéré comme un signe extérieur fort” 

 

La présence du crucifix peut aisément être interprétée par des élèves de tous âges comme un signe religieux et ils se sentiront éduqués dans un environnement scolaire marqué par une religion donnée. Ce qui peut être encourageant pour certains élèves religieux, peut être perturbant émotionnellement pour des élèves d'autres religions ou ceux qui ne professent aucune religion. Ce risque est particulièrement présent chez les élèves appartenant à des minorités religieuses. La liberté négative n'est pas limitée à l'absence de services religieux ou d'enseignement religieux. Elle s'étend aux pratiques et aux symboles exprimant, en particulier ou en général, une croyance, une religion ou l'athéisme. Ce droit négatif mérite une protection particulière si c'est l'Etat qui exprime une croyance et si la personne est placée dans une situation dont elle ne peut se dégager ou seulement en consentant des efforts et un sacrifice disproportionnés.

 

 Le respect des convictions de parents en matière d'éducation doit prendre en compte le respect des convictions des autres parents. L'Etat est tenu à la neutralité confessionnelle dans le cadre de l'éducation publique où la présence aux cours est requise sans considération de religion et qui doit chercher à inculquer aux élèves une pensée critique.

La Cour ne voit pas comment l'exposition, dans des salles de classe des écoles publiques, d'un symbole qu'il est raisonnable d'associer au catholicisme (la religion majoritaire en Italie) pourrait servir le pluralisme éducatif qui est essentiel à la préservation d'une « société démocratique » telle que la conçoit la Convention. La Cour note à ce propos que la jurisprudence de la Cour constitutionnelle va dans le même sens (voir paragraphe 24).

 

La Cour estime que l'exposition obligatoire d'un symbole d'une confession donnée dans l'exercice de la fonction publique relativement à des situations spécifiques relevant du contrôle gouvernemental, en particulier dans les salles de classe, restreint le droit des parents d'éduquer leurs enfants selon leurs convictions ainsi que le droit des enfants scolarisés de croire ou de ne pas croire. La Cour considère que cette mesure emporte vìolation de ces droits car les restrictions sont incompatibles avec le devoir incombant à l'Etat de respecter la neutralité dans l'exercice de la fonction publique, en particulier dans le domaine de l'éducation.

In definitiva La Corte stabilisce che il crocifisso è un simbolo religioso. Da questa premessa occorre muovere per capire la giurisprudenza della Corte medesima.

Tre i punti sostanziali:

1)      si deve garantire quanto stabilito dall’art. 2 protocollo 1 (1994). Il diritto all’istruzione non può essere negato a nessuno.

2)      Si dichiara espressamente la vìolazione dell’art. 9: dunque, l’Italia è condannata.

3)      Si ribadisce il principio di laicità, il cui misconoscimento potrebbe portare al rischio che venga meno il principio di democraticità.

La Lautsi permette di cogliere alcuni elementi fondamentali in materia di libertà religiosa: il principio di non-identificazione e di pluralismo sono considerati essenziali per uno Stato democratico.

 Considerazioni critiche in merito alla sentenza:

1) In primo luogo, si constata un mutamento nell’uso della clausola di «margine statale di apprezzamento». La Corte interviene con una decisione che deroga e si contrappone alla normativa interna dello Stato convenuto. Questo spiega l’impugnazione della decisione da parte dello Stato italiano davanti alla Grande Camera. Il Governo italiano ha impugnato questa sentenza per difendere il proprio «margine statale di apprezzamento». In sostanza, il ricorso del Governo si riduce alla richiesta del riconoscimento del «margine di apprezzamento» dei principi della Convenzione europea dei diritti umani da parte dei singoli Stati: cioè del «potere discrezionale, che in altri casi la Corte ammette per gli stati membri in settori come le relazioni tra Stato e Chiesa». 

2) Il principio di neutralità cui fa riferimento la sentenza richiama il modello di neutralità francese. Sinteticamente, il modello CEDU di laicità, quale risulta dalle sentenze rese nelle controversie in cui sono state convenute la Turchia e la Svizzera, è stato finora quello francese nel suo disegno più radicale della neutralità dello spazio pubblico e del conseguente divieto di indossare liberamente simboli religiosi «nei luoghi in cui le persone sono dipendenti da lui o anche nei luoghi in cui sono particolarmente vulnerabili».

3) Neppure c’erano dubbi sulla possibilità che la Corte potesse non considerare il crocifisso un «oggetto di venerazione religiosa» sia in sé sia nella percezione che ne hanno gli “altri” in un determinato contesto. Di conseguenza, la Corte ritiene che «l’esposizione obbligatoria di un simbolo di una data confessione nell’esercizio della funzione pubblica relativamente a situazioni specifiche sottoposte al controllo governativo, in particolare nelle aree scolastiche, vìoli il diritto dei genitori di educare i loro figli secondo le loro convinzioni e il diritto dei bambini scolarizzati di credere o di non credere».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Per concludere

Se si ripercorrono le sentenze che vanno dal 1993 al 2003 si può individuare il criterio seguito dalla Corte nel pronunciarsi sui vari casi che le sono stati presentati.

Tendenzialmente, v’è sempre stato apprezzamento e riconoscimento della sovranità dello Stato che ha messo capo ad un giusto equilibrio tra le esigenze dei vari Stati e l’esigenza dell’universalità.

Come si può evincere dall’analisi delle sentenze, il «margine di apprezzamento statale» è lo strumento che dà la possibilità di riconoscere o ridurre l’autonomia dello Stato fino a toglierla.

Ciò che fa discutere è il fatto che nella sentenza Lautsi il «margine di apprezzamento statale» è stato escluso.

Potremmo dire che la Corte di Strasburgo sta aumentando la posta in gioco: se fin’ora è intervenuta in maniera cauta, con la condanna dell’Italia – naturalmente si deve attendere la pronuncia della  – è stato cambiato totalmente registro.

La Corte di Strasburgo – alla luce di una sua “francesizzazione” e della “proclamazione” di una laicità forte ove gli spazi pubblici sono neutri –,   diminuendo il «margine di apprezzamento statale», sta incidendo sulla sovranità degli Stati.

Si deve, tuttavia, osservare, che garantire un ampio margine di apprezzamento ad autorità nazionali controllate dalle maggioranze equivale a svuotare di sostanza il sistema internazionale e la sua vocazione a proteggere le minoranze, già svantaggiate dalla logica sottesa alla democrazia maggioritaria.

La dottrina del «margine di apprezzamento» trae la propria giustificazione solo dalle teorie ottocentesche del consenso statale. La Corte si mostra cioè deferente nei confronti del principio di sovranità e della nozione di sussidiarietà e rispetto alla logica della democrazia nazionale: per imporre agli Stati membri della Convenzione nuovi doveri, non trova altro metodo che far leva sul consenso evitando così di assumere direttamente la responsabilità delle proprie decisioni.

Applicando generosamente la dottrina del «margine di apprezzamento», la Corte, invece di far leva sulla sua «posizione unica di voce collettiva sopranazionale di ragione e moralità», rinuncia all’imposizione di standard autenticamente internazionali. E vanifica così la propria missione di custode esterno contro la tirannia delle maggioranze in una acritica aderenza alle scelte maggioritarie.

La novità della decisione Lautsi sta, dunque, nel superamento di questa posizione “pilatesca” della Corte e della sua tradizionale deferenza nei confronti degli Stati nella sfera della libertà religiosa.

Infine, un altro elemento degno di nota risiede nell’ampliamento della nozione di religione. In tale “concetto” vengono incluse non solo le convinzioni religiose, ma anche le posizioni areligiose contraddistinte da una forte carica assiologia capace di condizionare le scelte e i comportamenti individuali.