Paolo VI e il Vaticano II

Paolo VI e il Vaticano II

Nella tradizione millenaria della Chiesa, terminata l’epoca in cui i concili erano convocati dagli imperatori, toccava al vescovo di Roma chiamare i vescovi a decidere su alcune questioni importanti della dottrina e della vita della Chiesa. Per questo quando Giovanni Battista Montini fu designato come successore di Giovanni XXIII serpeggiava la domanda se il nuovo Papa avrebbe deciso di sospendere i lavori conciliari oppure di dare seguito agli stessi.

Il primo periodo del concilio Vaticano II si era concluso senza nulla di fatto: la discussione tra i Padri conciliari era stata vivace, ma nessun documento era stato approvato. Se si vuol credere a un intervento dell’arcivescovo di Milano ai primi di dicembre del 1962, il concilio faticava perfino a trovare un centro attorno al quale far convergere tutti i futuri documenti. Montini, facendo seguito a un intervento del Card. Leo Suenens, suggeriva di raccogliere tutto il materiale in discussione in due grandi capitoli: la Chiesa al suo interno e la Chiesa verso il mondo. Uno dei primi gesti che Paolo VI fece fu dichiarare che il concilio sarebbe continuato. Il sollievo fu superiore al disappunto di pochi, che avevano ritenuto inutile un concilio fin da quando Papa Roncalli l’aveva annunciato (25 gennaio 1959). Continuare i lavori voleva dire coraggio di affrontare le questioni spinose che erano già apparse nel primo periodo: le fonti della rivelazione, la riforma liturgica, la libertà religiosa, la collegialità episcopale, per non citare che le più dibattute. Si poteva facilmente prevedere che le tensioni non sarebbero mancate. Paolo VI non se le nascondeva, ma aveva fiducia che lo spirito di comunione avrebbe alla fine prevalso. A creare tale spirito si adoperò con lucida quanto discreta determinazione. Gli interessava che i vescovi giungessero a visioni dottrinali condivise e per questo si adoperava in ogni modo: non voleva imporsi all’assemblea conciliare, ma faceva arrivare suggerimenti che aiutassero ad attutire le contrapposizioni, appellandosi alla convinzione che la verità è sinfonica; per questo i vescovi e gli esperti che contribuivano a redigere i documenti avrebbero dovuto ascoltare le ragioni di chi la pensava diversamente. Quando al termine di ogni periodo o in occasione della promulgazione di un documento interveniva pubblicamente, Papa Montini sottolineava il valore della dottrina elaborata in comunione. Né avrebbe potuto essere diversamente. Basterebbe rileggere la sua enciclica programmatica, giunta a circa un anno dalla sua elezione, l’Ecclesiam suam (6 agosto 1964), tutta dedicata al dialogo, per rendersi conto delle motivazioni che lo spingevano a sollecitare il dialogo tra i vescovi in concilio: la Chiesa che si proponeva di dialogare con tutti non avrebbe potuto non presentarsi dialogica al suo interno. Indagare tutti i risvolti dell’opera di Papa Montini al concilio è già stato obiettivo di alcuni dei Colloqui internazionali promossi dell’Istituto Paolo VI. Il prossimo, che si svolgerà a Concesio nei giorni 27-29 settembre, proseguirà in questa indagine, cercando di far luce sui rapporti tra il Papa e la curia, sull’opera di convincimento di Montini nei confronti dei vescovi italiani soprattutto in materia di libertà religiosa, sull’orientamento da lui impresso al Vaticano II. Un altro spaccato di storia, che svela la ricchezza di un Papa forse non ancora conosciuto, neppure a Brescia.