La politica della paura. Dialogo con Michele Nicoletti

La politica della paura. Dialogo con Michele Nicoletti

Un importante politologo tedesco Franz Neumann (1889-1954) – emigrato negli Stati Uniti per sfuggire al Nazismo – scrisse un saggio su “L’angoscia e la politica” (1957),nel quale analizzava il costante ritorno, in caso di crisi economiche protratte nel tempo, di una angoscia esistenziale che minaccia l’identità di sé e dei gruppi sociali e porta, insieme, alla delegittimazione delle autorità e alla ricerca di nuovi leader in grado di sedare queste minacce, magari incolpando qualcuno come capro espiatorio.

Un riferimento, ormai classico, a partire dal quale incontriamo Michele Nicoletti, che domani - alle 18 nell’Aula magna dell’Università cattolica, per la Accademia Cattolica - parlerà de “Il sistema politico specchio della frantumazione sociale”. Nicoletti, ordinario di filosofia politica all’Università di Trento, oltre ad aver scritto una monografia di riferimento su Carl Schmitt, ha pubblicato un libro “La politica e il male” (Morcelliana) che ha al centro proprio la relazione tra paura, obbligazione politica e libertà. Ed è a Michele Nicoletti che si deve l’introduzione, in Italia, del pensiero di Ernst Wolfgang Boeckenfoerde, il costituzionalista tedesco scomparso pochi giorni fa e scopritore di un tragico paradosso sotteso alle democrazie liberali: “Un sistema liberale-costituzionale presuppone un ethos prepolitico che non può fondare, ma dal quale è fondato” (cfr. “La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione”, Morcelliana)

Un paradosso che parla dell’oggi:
“Infatti, ci dice Nicoletti, la società appare frantumata da una dominante paura che potremmo definire come la paura di essere spossessati di sé, paura di essere in mano di altri: la tecnica, la burocrazia, la politica corrotta, i mercati internazionali, l’Europa, il riscaldamento globale, le ondate migratorie. Di qui un timore diffuso e un generale ripiegamento volto a proteggersi dall’esterno e a custodire una qualche forma di sé: il sé personale, familiare, tribale, nazionale, nella convinzione che il mondo e la storia ce lo vogliano portare via e che ormai noi, ognuno di noi, siamo in mano di altri. Donde uno sguardo cupo e diffidente su ciò che ci circonda. La diffidenza sarebbe la reazione dominante a questa percezione: una diffidenza che colpisce le relazioni interpersonali ma, soprattutto, la compagine sociale e le sue istituzioni”. Come se le società subissero, insieme, una deflagrazione centripeta che sfalda ogni ethos comune e fossero alla ricerca spasmodica di qualcosa che le unisca. “Da qui la sfiducia verso ogni autorità, incapace di indicare una via d’uscita, e verso la democrazia rappresentativa. Di fronte a questa situazione un ruolo importante può essere svolto da una vigorosa riproposizione del principio di ‘auto-appartenenza’, inteso come l'aspirazione delle persone e delle comunità a vedere rispettata la propria dignità e riconosciuta la propria originalità”. Possiamo interpretare questa ipotesi come una attualizzazione del principio – proprio della dottrina sociale della Chiesa - della sussidiarietà e dei corpi intermedi come essenziali per un ethos delle libertà? “Questo principio può servire come fondamento non solo per una prospettiva esistenziale della libertà e della relazionalità dell'individuo, ma anche per una visione della società basata sul rispetto dei diritti universali di base e una pratica democratica che si estende dal livello locale a quello europeo e globale”. Sarebbe un modo per far fronte a questi tempi hobbesiani, di latente guerra civile: “Vale la pena ricordare il monito di Max Weber: compito del politico, che risponda alla sua vocazione, alla sua etica della responsabilità, è tentare l’impossibile: rimettere a tacere i demoni che flagellano la tranquillità dell’ordine, la pace sociale”.