Sfide postmoderne ad una paideia umanistica

I. LA QUAESTIO

1. Come è noto paideia non intende tanto una definizione dell’educazione, quanto piuttosto un ideale formativo di vita buona, di vita felice o riuscita, che ha il suo orizzonte di senso in una più generale prospettiva filosofica e insieme pedagogica sull’uomo, sul bene, in sintesi in una Weltanschauung di segno etico, una visione etica dell’essere e dell’esistenza.

Si tratta di un termine sur-determinato, polisemico in modo eminente, intendendo molteplici declinazioni storiche; la molteplicità però appare articolazione di un’unità, quanto rende il concetto anche analogico in senso adeguato.

L’unità di senso è stata spesso ricondotta al termine humanitas, che può esser tenuto come traduzione latina della parola greca. Mentre probabilmente la traduzione moderna più conveniente è data da Bildung, nel senso che ad esempio conferisce a questa categoria Goethe.

La mia proposta interpretativa è la seguente: la nozione di persona come evento formativo raccoglie l’eredità della paideia di tradizione umanistica, nella cultura filosofica e pedagogica contemporanea.

Insisto nel parlare di prospettiva insieme filosofica e pedagogica perché una tesi qualificante di questa eredità è considerare l’educazione e la formazione innanzitutto ed essenzialmente un’impresa filosofica.

2. Nella riflessione che propongo prendo in esame la sfida radicale alla paideia portata dalla cultura postmoderna, il cui esito è una vera e propria dissoluzione della persona, dunque una posizione post- o trans-umanista; l’uomo è, per dir tutto sinteticamente, dividuum, essere fratto ed esistenza frammentata, essere ed esistenza infrapersonale.

Ho presente Michel Foucault e la sua filosofia della morte dell’uomo, Jacques Derrida e il decostruzionismo, Richard Rorty e l’ironismo universale; anche se scelgo, per brevità e per chiarezza, di svolgere un dialogo critico serrato con Gianni Vattimo e il suo pensare senza fondamento, la prospettiva più nota con la dizione di pensiero debole.

È una sfida che va alle radici delle questioni, della persona e dell’ideale formativo; accoglierla significa tentare di ritrovarne il senso originario delle parole fondamentali del vocabolario paidetico, ricominciando per così dire tutto di nuovo daccapo.

Ogni eredità esige di essere riscattata, per ricordare H. Arendt, non può esser trasmessa senza un testamento.

II. LA SFIDA DEL PENSIERO DEBOLE

1. Cominciamo col notare che nel pensiero debole perviene a sintesi ed è essenzializzata la critica che i maestri del sospetto hanno rivolto alla pretesa del soggetto moderno di centrarsi su di sé e di porsi come padrone del proprio destino.

Questo pensiero sembra esprimere la Weltanschauung spontanea degli uomini del nostro tempo, abitatori di un’epoca tarda, l’epoca del disincanto, quella delle società occidentali della tarda modernità; il riscontro, una verifica empirica di questa osservazione è costituita da quanto emerge dalle indagini psico-sociali condotte nel nostro Paese negli ultimi anni.

Per parte mia però qui interpreto il pensiero debole innanzitutto come posizione filosofica e pedagogica; e in quanto tale mia pare sia caratterizzata da tre tesi di fondo.

2. Propongo di denotare la prima tesi misconoscimento del reale.

La tesi è formulata bene da due affermazioni ricorrenti nei testi di Vattimo: che «non esistono fatti, ma solo interpretazioni dei fatti»; e che «il mondo vero è diventato una favola».

Entrambe le formulazioni appaiono subito un po’ paradossali per il senso comune; la prima per Vattimo conterebbe il senso stesso dell’ermeneutica contemporanea, il suo esito nichilistico; l’altra vede in questa riuscita il «destino dell’essere» nell’epoca della morte della metafisica.

Si tratta di affermazioni incomprensibili senza riportarle a Friedrich Nietzsche, interlocutore princeps – quasi un’ossessione - di Vattimo e della filosofia postmoderna. Verrebbe da dire che di questo autore è trattenuto soprattutto lo stile, aforistico e a tratti oracolare; in effetti, nel pensiero senza fondamento, non le argomentazioni, ma lo stile diviene filosofia: quanto veicola la convinzione che «tutte le parole dei linguaggi sono metafore, e nulla ci comunicano della realtà perché sono solo modi di esprimersi. Ecco pertanto il mondo trasformarsi in un drappo variopinto, dai mille colori ognor cangianti», grazie solo al «mobile esercito delle metafore».

3. La seconda tesi è quella che enuncia il misconoscimento dei volti.

Ecco una formulazione che esprime bene questa seconda tesi del pensiero debole: dietro questo drappo variopinto, velo del mondo, non c’è niente; oppure, detto diversamente, dietro i sembianti mutevoli o le maschere, non si nasconde nessun volto. Si tratta di una radicale negazione d’ogni identità “forte” della persona, che riesce nella più radicale dissoluzione dello spirito.

Gli uomini del passato - secondo Vattimo - si sarebbero affannati a cercare, oltre la superficie, una qualche profondità – dietro l’esteriore, un’interiorità. Non esiste nessuna profondità e se anche esistesse, essa ci creerebbe più problemi di quanti ne possa risolvere. Bisogna avere il coraggio di riconoscere, di prender atto che non esiste nessuna profondità e nessuna interiorità; esiste solo la superficie del mondo, che non essendo più superficie d’alcunché, è piuttosto tutta intera la realtà.

Applicando questa prospettiva ontologica alle persone, al loro incontro e al riconoscimento, dobbiamo dire che, per questa ragione, quanto dell’altro appare diviene tutta la realtà personale; e, finalmente lo si può comprendere bene, si tratta sempre e solo di una maschera, di un volto irrigidito o pietrificato; e il cui senso, non provenendo dall'interiore, va cercato al di fuori del soggetto – nell'esteriore.

Se dietro le maschere, non c'è nessun volto, noi – conclude Vattimo, citando una bella pagina di Nietzsche - non abbiamo nessun'anima, oltre quella in cui si risolve in ogni attimo il singolo vissuto momentaneo – lo stato psicologico. Non esiste un’anima sottratta al continuo fluire del tempo e che abbia vita propria e risorse specifiche: «non abbiamo nessuna anima immortale, abbiamo mille anime mortali».

4. La terza tesi è quella che chiamo misconoscimento delle differenze.

Può suonare stonato questo rilievo, rivolto ad un pensiero che si presenta come «pensiero della differenza»; a ben vedere però proprio la nozione di differenza risulta la più aporetica.

Vattimo descrive spesso le società della postmodernità come «le più complesse e persino caotiche», in ragione del fatto che esse sono innanzitutto ed essenzialmente «società plurali». Non si tratta di società «trasparenti (in senso hegeliano)», ma tanto i singoli individui quanto le comunità culturali ed etiche risultano formate da «contaminazioni di diverse ricostruzioni o immagini della realtà»: le città della postmodernità appaiono immensi «cantieri di sopravvivenze» multiculturali.

Ora però le differenze antropologiche mentre sembrano esaltate al massimo grado, e sembrano diventare assolute; perdono lo specifico peso ontologico ed etico che fa la proprietà di ogni differenza, l’esito estremo è dunque l’indifferenziazione.

Così, ad esempio, i “valori” di ogni persona e d’ogni comunità, in quanto determinazioni storico-culturali sono tutti ugualmente relativi, tutti posti allo stesso livello; non sono delle differenze sulle quali ci si possa interrogare sul piano della loro realtà e del loro bene, per comprenderne, col senso, le positività e i limiti. Quelli che pure percepiamo come “grandi valori” possono andar bene come quelli che ci appaiono valori “piccoli-piccoli”; e, in assenza di ogni fondazione, non avendo il problema di dire il perché qualcosa sia oggettivamente preferibile rispetto ad un’altra, everything goes, tutto va bene, allo stesso modo.

III. RILIEVI CRITICI

1. Sembra che le proposte del pensiero debole e le interpretazioni che propone del nostro tempo oggi vadano perdendo di mordente. Ecco probabilmente una situazione che rende possibile proporne una ricomprensione critica.

Esso mi appare una forma di antirealismo nel quale divengono prevalenti e qualificanti le figure della dissoluzione. Forse la definizione adeguata per intenderlo può essere idealismo fantasmagorico, dizione che evidenzia il misconoscimento d’altro/dell’altro come invariante di questa filosofia.

In effetti, il «mondo vero che diviene una favola» appare, a ben vedere, un caleidoscopio: non ha effettualità, consistenza propria o resistenza, è solo il risultato di vere e proprie proiezioni del soggetto, che – come risulta qui evidente – è l’io, preciserei l’io singolo.

Questo in buona sostanza il senso complessivo del nichilismo attivo di cui ci parla Vattimo: è una forma di antirealismo, che riesce – come si è espresso Maurizio Ferraris – nella de-oggettivizzazione, in una critica radicale della verità oggettiva, che dal pensiero debole è vista e intesa solo come manifestazione della volontà di potenza; e in una conseguente ironizzazione universale il cui esito è il «reality-smo», la riduzione della realtà a reality – a fiction.

L’idealismo fantasmagorico, infine, riesce in una completa dispercezione della storia.

2. Questa dialettizzazione non deve però impedirci di apprezzare il contributo positivo del pensiero debole; questa positività peraltro sembra emergere con più nettezza nel momento in cui la stagione post-moderna va esaurendosi.

Tale significato positivo è costituito dalla critica al soggetto autopoietico celebrato dalla modernità, dalla messa in questione della sua identità posticcia: l’essere è effimero, segnato in ultima istanza dalla contingenza; l’esistenza risulta innanzitutto e in modo non accidentale frammentata; il soggetto non è padrone in casa sua e mai è perfettamente trasparente a se stesso.

Per tale ragione, in questa prospettiva la modernità appare impresa incompiuta di umanizzazione

È questa critica che persuade che ci troviamo di fronte ad una esperienza di cultura e di vita che ha accolto pienamente le sfide dei maestri del sospetto: di Nietzsche, senz’altro, ma anche quelle di Schopenhauer e di Freud, di Marx e di Darwin; sfide rivelative di una fondamentale finitezza del soggetto umano.

3. Reputo però che questa esperienza radicale della finitezza possa essere intesa adeguatamente, a patto che sia operata, in questa filosofia, la distinzione tra quella che io propongo di chiamare la semplice esperienza postmoderna e la sua superfetazione retorica.

Ciò implica, per un verso, d’intendere il pensiero debole come tentativo di interpretazione di una situazione problematica, quanto citando Bauman possiamo definire la «metamorfosi della condizione umana», indicatore il più significativo di un vero e proprio passaggio epocale che marca il tempo presente.

Ma, per un altro verso, quella che ora possiamo chiamare solo l’esperienza post-moderna va separata dalla sua deriva ideologica: dall’affermazione che il nichilismo sia «destino dell’essere». Si tratta infatti con ciò di una vera e propria ipostatizzazione, che trasforma il postmoderno in un ibrido postmodernismo.

4. Come è noto, una critica analoga a questa è stata svolta dall’autore appena citato, Ferraris, già allievo di Vattimo; e da altri autori, di orientamento differente ma accomunati da una serie di tesi condivise e da un orizzonte comunemente denotato negli ultimi anni «nuovo realismo»: all’interno del quale la critica all’idealismo fantasmagorico, alla sua «fallacia antirealistica», perviene ad una nuova intelligenza della realtà e della verità oggettive.

È una sfida portata al postmodernismo, le cui tesi portanti, raccolte da Ferraris in un Manifesto del nuovo realismo, sono ampiamente condivisibili. Si parla, oltre il fondamento retorico o mitico del pensare, di un pensiero segnato dal primato della ragione, che è essenzialmente la capacità di riconoscere la realtà; si fa l’elogio della «parresía», difesa del carattere di testimonianza che è propria della filosofia, opposta all’ironia trascendentale; viene avvalorato l’ideale della «vita esaminata», la ricerca del vero che «rende liberi», e che permette di ritornare «da Nietzsche a Socrate».

Nella prospettiva del nuovo realismo, anche il postmodernismo appare impresa incompiuta di umanizzazione.

IV. UN’ONTOLOGIA DELLA PERSONA

1. Quest’ultima prospettiva, il nuovo realismo, ancorché molto interessante, presenta però un limite critico, tutt’altro che secondario per la nostra riflessione sulla paideia: manca in esso un’ontologia della persona, che da alcuni di questi autori è intesa alla stregua di «tutti i fenomeni naturali» (la formula è di Michele De Francesco), da altri è vista come «realtà sociale» (John Searle).

La posizione però appare subito aporetica: gli stessi autori parlano di un divenire contingente della persona, «non sempre prevedibile»; ora, per intenderlo, non è possibile ricondurre le persone agli oggetti naturali, che segnati piuttosto da leggi determinate e necessarie. La persona dunque non è/no può essere un fenomeno naturale.

Le persone allora sono «oggetti sociali», «alla stregua delle banconote e dei contratti» - con lo stesso esempio portato da Ferraris? In verità le banconote e i contratti sono realtà sociali perché fanno parte del mondo umano, sono opere delle persone, dell’intelligenza della ragione e più in generale dello spirito. Esse dunque, come tutti gli oggetti sociali, hanno nell’esistenza personale il loro criterio di senso e non il contrario. La realtà personale è dunque realtà meta-sociale.

2. Ho tentato di elaborare nelle mie ricerche un’ontologia della persona, movendomi in una prospettiva filosofica e pedagogica di stile fenomenologico-ermeneutico. Assumendo la sfida radicale che viene dal pensiero debole post- / trans-umanista, mi limito in questa sede a presentarne alcuni tratti, in dialettica con le tre tesi di fondo che ho presentato.

Comincio con una notazione preliminare, che vale alla stregua di una pregiudiziale. È necessario sottolineare la positività dell’istanza critica di decostruzione delle configurazioni determinate della persona; è però contraddittorio ridurre l’essenza ai volti storici e decostruire di conseguenza, coi volti storici, l’essenza della persona. L’essenza trascende infatti i suoi fenomeni particolari e se si decostruisce l’essenza, noi non sappiamo più, di fronte ad un fenomeno, di quale realtà si tratti e quale sia il senso originario del termine che la intende.

V. IL RICONOSCIMENTO DEL REALE

1. Nella mia prospettiva, la persona visualizzata nella sua essenza è un avvenimento formativo, forma formata e sempre insieme forma formans, termini che cercherò di semantizzare col progredire del discorso.

Ora, la prima affermazione di principio è quella che giustifica, ossia rende evidente, il nesso tra avvenimento della persona e riconoscimento del reale: perché riconoscere la realtà nella sua duplicità di senso, immedito o relativo (termine dell’esperienza) e mediato o assoluto (termine della ricerca razionale), il riconoscimento della realtà implica di far vivere del soggetto la parte più viva e intima, che è la vita intelligente e la vita razionale.

Implica la virtù dell’attenzione: scegliere di «vivere da una certa profondità», come si esprime R. De Monticelli, che sia commisurata al peso ontologico assiologico ed etico d’ogni ente; in sintesi, significa attivare lo spirito, «l’anima dell’anima», per citare E. Stein, altro rispetto all’«anima del corpo».

2. La giustificazione filosofica di questa prima affermazione di principio dell’ontologia della persona è offerta da una fenomenologia della percezione – ecco uno spunto teoreticamente rilevante presente in Ferraris: questa permette di intendere ogni fenomeno come offerta di senso; e la superficie del fenomeno, quanto immediatamente appare, come venire in superficie di una profondità, di quanto immediatamente non appare, un’unità di senso che si dona in trasparenza.

3. La fenomenologia della percezione porta la fondazione del realismo critico: la persona è definita dalla coscienza; la coscienza è intenzionalità; l’intenzionalità è relazione al senso (nesso ad un valore, si direbbe col linguaggio educativo); e questa appare donazione di senso, sia come offrirsi del senso stesso del reale sia come significazione ovvero conferire senso portando a parola quanto si offre.

È il rovesciamento dell’antirealismo, della prima delle tesi di fondo dell’idealismo fantasmagorico.

3. Vale la pena evidenziare subito il rilievo che questa prima affermazione di principio ha in una prospettiva paidetica, per l’impegno educativo e per la riflessione pedagogica. Infatti, esistono oggi caratteristiche ferite educative, che dispongono piuttosto ad esistenze infrapersonali: portano l’ottundimento dell’intelligenza e una inettitudine razionale, riescono nella mortificazione dello spirito; un soggetto così, per ricordare ancora H. Arendt, è pronto per la «banalità del male».

VI. IL RICONOSCIMENTO DEI VOLTI

1. Ma il riconoscimento della realtà dispone al riconoscimento dei volti o, forse meglio, al riconoscimento della persona come «effige», massima personalizzazione dell’essere (J. Guitton), epifania dell’infinito in una presenza singolare (Levinas).

La giustificazione di questa seconda affermazione di principio dell’ontologia della persona è offerta da una fenomenologia dell’incontro interpersonale e del riconoscimento dell’altro, nel quale ha un ruolo determinante l’empatia. Questa è un sentire intelligente che, nel modo della condivisione delle emozioni dei pensieri e delle motivazioni, perviene ad una qualche conoscenza oggettiva dell’universo soggettivo dell’altro.

2. Nella mia prospettiva però, soprattutto quando ci si muove nell’ambito della ragion pratica, l’approfondimento di questi temi, del volto dell’incontro del riconoscimento, esige una ricomprensione critica del senso stesso dell’ermeneutica, oltre l’interpretazione del pensiero debole che vede nel nichilismo il suo aspetto costitutivo.

Per mio conto vedo ed intendo l’ermeneutica in un rapporto di reciproca implicazione, di circolarità dialettica con la fenomenologia: per questo parlo di prospettiva fenomenologico-ermeneutica – dove il trattino serve a distinguere nell’unito; e reputo che una tale prospettiva consenta un approfondimento dell’ontologia della persona in senso storico ed esistenziale – conferisce a questa, si può anche dire, una caratteristica intonazione storica ed esistenziale.

3. Il volto, in quest’ottica, l’identità della persona, è forma formata, una consegna e un appello, che è la situazione originaria e l’ethos che lo connota; ed è forma formans, una personalizzazione dell’esistenza che è resa possibile dall’assunzione responsabile della consegna e dell’appello.

Ecco allora un’affermazione del massimo rilievo per la prospettiva paidetica - per l’educazione e per la pedagogia: la crescita del soggetto è certamente opera personale in senso eminente; può accadere però solo all’interno di relazioni di reciproco riconoscimento significative, segnate da quanto a me piace chiamare un dialogo esistenziale centrato sull’empatia.

VII. IL RICONOSCIMENTO DELLE DIFFERENZE

1. Secondo il mio modo divedere, l’antropologia pedagogica porta un contributo originale all’ontologia della persona, grazie alla teoria pedagogica del bisogno fondamentale di riconoscimento.

L’antropologia pedagogica implica una definizione dell’essenza stessa della persona, che emerge con evidenza negli ambiti formativi: tutte le imprese umane di educazione e di formazione appaiono un tentativo di portare una qualche risposta ad esso.

2. È, in primo luogo, il bisogno che ogni persona ha, per essere, di essere riconosciuta nell’essere.

È il bisogno di essere voluti accolti stimati ed amati, per il solo fatto di esserci, dunque in modo incondizionato.

Si capisce perché sia il primo momento, quasi la premessa indispensabile di ogni cura educativa: dona alla persona la coscienza di essere preziosa nell'universo; nel momento stesso in cui rivela con tutta evidenza un aspetto della sua natura di persona: che essa è nella sua essenza esser-voluta, esser-accolta o esser-amata – esser l'amata, ecco l'espressione da preferire senz'altro.

Qualche autore ne parla come dell’aspetto femminile o materno dell’educazione.

Altri nota che in questo versante di tale bisogno, emerge la radice di senso del desiderare umano: il quale è sempre desiderare di essere desiderati.

3. Ed è, in secondo luogo, il bisogno di essere aiutati a riconoscere l’essere, per vivere in prima persona negli universi simbolici ai quali siamo consegnati o nei quali veniamo ad abitare.

Si comprende perché sia essenziale anche questo lato di tale bisogno: per un essere la cui essenza è la relazione al senso, è un’esigenza vitale abitare mondi di significato e creare universi simbolici.

Qualche autore ne parla come dell’aspetto maschile o paterno dell’educazione.

Altri fa notare che, a ben vedere, ogni universo simbolico porta sempre un senso ultimo dell’esistenza, ciò per cui vale veramente la pena di vivere e di morire; il riconoscimento è dunque una qualche consegna, un ingresso e una personalizzazione creativa di un certo stile esistenziale, di un modo caratteristico di abitare il mondo.

4. Il bisogno fondamentale di riconoscimento è infine bisogno di un riconoscimento reciproco a partire dalle differenze.

Quanto esige di vederle ed intenderle come differenze di una comune umanità; e poiché ciò che è relativo dal punto di vista culturale non lo è dal punto di vista etico, il riconoscimento reciproco necessita un lavoro di riflessività, che consiste nell’apprendere ad elaborare il senso delle differenze.

En passant, il termine di confronto della riflessività è, per un verso, un’etica dei principi e dei diritti universali della persona; per un altro verso, la prospettiva pratica di costruzione di una comunità politica.

5. Questa terza articolazione della categoria di riconoscimento trova il suo orizzonte di senso nel paradigma di una «ragione relativa»; può costituire l’orizzonte di senso di una nuova paideia per il nostro tempo.

Significa, in primo luogo, un uso della ragione antifondamentalista e antintegralista, relativa dunque nel senso di non totalistica.

Ma significa anche, in secondo luogo, che il riconoscimento del reale e dei volti può avvenire all’interno di relazioni, vissute come luogo di apprendimento reciproco.

6. Si concretizza nella pratica di una «comunicazione autentica», intraculturale e interculturale (xenologica), in microcomunità empatiche, all’interno delle famiglie e a scuola: le microcomunità empatiche sono ambiti in cui l’altro è tenuto come una risorsa.

Tale pratica permette di sperimentare le differenze come relazioni sociali che veicolano una condivisione delle ricchezze di ognuno: uno scambio di beni definito dalla logica del dono.