Resoconto seminario del prof  Alessandro Ferrari

Resoconto seminario del prof Alessandro Ferrari

SUL PRINCIPIO DI LAICITÀ MODELLI A CONFRONTO

Il seminario del Prof. Alessandro Ferrari si è incentrato sul complesso principio di laicità, offrendone una descrizione che ha preso le mosse dalla distinzione di tale principio in laicità narrativa (discorso politico, filosofico, etico) e laicità del diritto che, di fatto, segna il radicamento e l’ingresso del principio nel regolamento giuridico. Come è noto il modello italiano e quello francese – l’uno scaturito dal Concordato, il secondo dalla legge di separazione del 1905 – rappresentano laicità costituzionali di seconda generazione.

Afferma Ferrari: «È la laicità costituzionale francese la prima delle laicità di “seconda generazione” tra cui va annoverata anche la laicità italiana, implicita nella lettera della Costituzione ed esplicitata, soltanto nel 1989, dai giudici costituzionali come principio supremo dell’ordinamento. Due sono le caratteristiche principali: 1) si tratta di una laicità fondata sulla distinzione degli ordini civile e religioso e non sulla loro separazione; 2) si tratta di una laicità includente che, già nel suo nucleo costitutivo, contempla la possibilità di un esplicito pluralismo giuridico e di un collegamento tra ordinamenti giuridici autonomi, realizzato attraverso meccanismi di cooperazione direttamente previsti dalla Costituzione (Concordato ed intese con le confessioni religiose diverse dalla cattolica)».

Dunque, se è vero che la laicità ottocentesca è una espressione della laicità – infatti in origine tale parola indicava una separazione tra clero e semplici fedeli – , anche se non la esprime dal punto di vista giuridico, il principio di laicità non è un concetto moderno, ma contemporaneo. La laicità contemporanea si differenzia da quella ottocentesca per le seguenti ragioni: vengono affermate, nell’ottica della non-indifferenza, l’uguaglianza e la libertà sostanziali contro l’uguaglianza e la libertà formali (Stato sociale e interventista); viene proclamato il pluralismo versus l’idea di separazione e di anticlericalismo. Pertanto se la laicità narrativa nasce con lo Stato moderno, la laicità del diritto coincide con la crisi del sistema statale del modello westfaliano. Ancora, se una delle caratteristiche peculiari della laicità narrativa si rinviene nel riconoscimento dell’autonomia dello Stato nei confronti delle religioni e di quest’ultime nei confronti dello Stato, con la proclamazione delle laicità costituzionali del II dopoguerra si assiste ad una trasformazione profonda: si passa dalla separazione al pluralismo, che non è semplicemente molteplicità degli attori, ma condivisione dei principi nei termini di una laicità positiva. Che cosa si deve intendere con questa definizione?

«Il passaggio dal culto del diritto formale a quello del diritto effettuale. La laicità positiva – continua Ferrari – risiede nel fatto che la libertà religiosa fa parte di quei diritti della persona, dinnanzi ai quali lo Stato non può, appunto, rimanere indifferente: la laicità del diritto è una laicità sostanziale, positiva e non più separatista. L’affermazione di una tale laicità coincide con una rivalutazione della sfera pubblica e della sfera privata, ovvero si perviene al pieno riconoscimento della società civile. La saldatura tra laicità e diritti individuali ha spostato il baricentro sulle scelte proprie di ciascun soggetto che chiamano in causa istanze religiose, culturali, etiche. Si pensi, soltanto, alla polemica sull’uso del velo o del burqa». Come dire: il fenomeno del multiculturalismo, prodotto dall’effetto di autonomia a cascata, innescato dalla laicità narrativa, ha fatto sì che gli interessi del diritto si spostassero e che il focus non fosse tanto da individuare nel rapporto dialettico tra Stato e chiesa – ovvero tra le istituzioni –, ma nella cultura dei diritti individuali associati alla pluralizzazione del diritto.

«Quando si parla di laicità contemporanea – chiarisce il docente – si indica uno strumento finalizzato all’integrazione e basato su tre punti cardine: libertà di coscienza religiosa 2 individuale, principio di autonomia e incompetenza, principio di cooperazione. È a partire da questa premessa che si può pervenire ala comparazione con altri modelli. Se usciamo dal quadro extraeuropeo, in Canada, incontriamo i cosiddetti ‘accomodamenti ragionevoli’, che non sono altro che la traduzione dell’uguaglianza ragionevole: dare a ciascuno il suo, adattando le norme al caso singolo. Se, ad esempio, chiedo ad un ebreo di compiere un’azione qualsiasi nel giorno di Shabbat, metto capo ad un atto di ingiustizia poiché egli sarebbe costretto a vìolare le prescrizioni che riguardano quel giorno e che provengono dal suo credo.

Nel Regno Unito v’è un maggior collegamento tra realtà laicale e religiosa, teso ad assicurare la partecipazione delle diverse comunità alla vita sociale. Si assiste ad un pluralismo ‘in action’ sia per quanto concerne l’insegnamento della religione a scuola sia per la maggiore apertura della giurisprudenza alla libertà religiosa. Per fare un esempio – spiega Ferrari – la legge sul divorzio consente di sospendere la sentenza definitiva finché il divorzio religioso non sia avvenuto.

Questa regolamentazione permette di evitare uno sdoppiamento tra la sfera religiosa e quella sociale e si traduce in quelli che vengono chiamati arbitrations acts: molte controversie vengono risolte dalle parti attraverso la nomina di un arbitro e l’indicazione delle leggi (si pensi alla giurisprudenza ebraica o islamica) cui ispirarsi per addivenire ad una risoluzione equa e rispettosa delle esigenze di coloro che sono coinvolti in vertenze di varia natura. Una modalità di adeguamento della legge statale alla legge religiosa è, ad esempio, la legge che in Inghilterra punisce l’escissione femminile: tale legge concede al giudice una escursione della pena molto vasta. Di contro, in Italia, la legge sulla laicità è inapplicabile poiché ci si trova di fronte a condotte che sono dolose, ma che non sono accompagnate dalla consapevolezza della dannosità .Il risultato è paralizzante poiché gli operatori, pur contrari ad una tale pratica, non se la sentono di condannare i soggetti in questione».

Non a caso, uno degli elementi più complessi che permea le società multiculturali è quello legato alla natural defense: reati culturalmente orientati, alla base dei quali ci sono credenze religiose. Un altro aspetto è rappresentato dalle obiezioni di coscienza. Ma qual è l’elemento che accomuna i modelli sopra analizzati? La trasformazione della fenomenologia del religioso, come si evince dalla stessa sentenza 203/1989 della Corte Costituzionale, che recita: «Il principio di laicità, quale emerge dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale».

«Ritengo sia fondamentale – sottolinea lo studioso – esplicare l’importanza dell’endiadi: pluralismo confessionale e culturale. Cosa implica? Per un verso, l’equiparazione delle manifestazioni religiose della coscienza con le manifestazioni non religiose; per l’altro, il fatto che è da ritenersi illegittimo, non solo un monopolio di tipo confessionale, ma anche uno di tipo culturale. Dunque, una tale endiadi ci fa comprendere come sia sempre più difficile distinguere tra religione e cultura, come la laicità positiva sia legata al riconoscimento dei diritti del singolo e alle motivazioni di colui che agisce e come, infine, allorquando la Corte Costituzionale ricorre a quell’endiadi, intenda associare il principio di laicità ad una vasta gamma di fenomeni. Da ciò scaturisce un’ulteriore problematizzazione della laicità, che possiamo raggruppare in due correnti. Da un lato, quella di coloro che parlano di una laicizzazione della laicità (secondo una tale visione, lo Stato laico deve riconoscere, in un'ottica pluralista, l'importanza della religione – di tutte le religioni, non solo di quella cattolica – in quanto fatto culturale), dall’altro quella di coloro che ritengono si possa parlare di una secolarizzazione della laicità, ovvero di un superamento del religioso e del culturale. È chiaro che, dinnanzi, ad una tale complessità gli Stati gestiscano con un’evidente fatica il fenomeno del pluralismo religioso e del multiculturalismo».

Dal canto suo, la Francia risponde a questo delicato processo di trasformazione globale facendo leva sulla legge come elemento unificante. L’esempio più famoso è legato alla legge sul velo (la prima formulazione risale al 1989): si elimina il problema rivitalizzando lo strumento normativo. Tuttavia, agendo in tal modo, si alimenta attraverso il divieto una diffusa stigmatizzazione sociale e un’inevitabile discriminazione delle donne musulmane, che possono rischiare di vedersi respinta l’assunzione per il fatto che vogliono andare al lavoro indossando il velo. «È interessante notare – argomenta Ferrari – come, in Francia, i momenti di crisi siano stati segnati da queste leggi. Come si arrivò al divieto di indossare il velo? Attraverso la costituzione di una commissione ad hoc, caldeggiata da Chirac, nella quale furono portati casi che deponevano contro l’uso del velo, mentre non furono ammessi quelli a favore. Non si può, tuttavia, dimenticare il ruolo positivo giocato dal Rapporto Stasi (2003), in cui la volontà di conciliare laicità del diritto e laicità narrativa emerge con chiarezza. Da questa esemplificazione si ha l’ennesima conferma del ruolo principe giocato dagli arbitrati, soprattutto se le parti coinvolte sono di religione ebraica o islamica. Più sarà diffusa questa tecnica, più dovranno comparire integrazioni alla normativa per accertare la piena libertà di colui o colei che decide di ricorrere all’arbitrato e per sciogliere questioni legate ad un’eventuale impugnatura: la via intermedia non è facile ed implica una flessibilità del diritto e della giurisprudenza, il diritto mite».

Non meno preoccupante è la situazione del nostro Paese. Se è vero che, per un verso, l’Italia è ritenuta, tradizionalmente, la fucina di un modello di sana laicità che tiene conto del proprio substrato culturale, per l’altro tale laicità si trova a dover fare i conti con un alto tasso di problematicità. Ciò sarebbe dovuto allo scarso rilievo riservato ai meccanismi politici di integrazione e ad una costante contrapposizione tra laicità narrativa e laicità del diritto, con un particolare che non è di poco conto: se la laicità ottocentesca era connotata da un forte anticlericalismo, oggi tale laicità – una sorta di laïcité de combat contemporanea legata ad una concezione monista dello Stato – si dichiara contro le manifestazioni delle diversità, mettendo in seria difficoltà la laicità accomodante del diritto. Il rischio è di tradire l’eredità del costituzionalismo del II dopoguerra, che realizzò quello che Rawls chiama ‘il velo d’ignoranza’.

Di qui il generarsi di una complicazione spinosa. La laicità narrativa preme continuamente su quella del diritto mettendo in seria difficoltà i giuristi; d’altra parte le due laicità sono reciprocamente implicate tra loro e l’interna dialettica ne costituisce la peculiarità. Il rischio sotteso a questa dinamica è, tuttavia, molto alto: la paralisi del sistema qualora la complessità venga ritenuta equivalente alla non applicabilità.

«Non credo – sottolinea Ferrari – che la laicità contemporanea sia il regno del relativismo, bensì si tratta di un modello che si riconosce nel principio di responsabilità. Come si sa le due fonti di riferimento sono, per un verso, i giudici, per l’altro, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Quando il sistema si fa concreto è opportuno vi sia un bilanciamento tra i valori (fase pre-istituzionale) e i principi (fase giuridica). Purtroppo non si può negare il fatto che ci si trovi dinnanzi ad una diffusa deficienza sia per quanto attiene la sfera politica sia per quanto concerne gli agenti sociali e la società civile; questa situazione di stallo non può che ostacolare la messa in pratica di una sana laicità. La valenza simbolica delle religioni, ad esempio, è una sfida per la giurisprudenza. Infatti il simbolo serve per unire coloro che si riconoscono in esso, ma, nello stesso tempo, è ciò che divide». Di qui una considerazione centrale: un diritto capace di affondare le proprie radici nelle tradizioni culturali è quello che permette maggiori risultati. Interessante, in proposito, l’interpretazione data dal Consiglio di Stato italiano (20 febbraio 2006) sul crocifisso che, a seconda del luogo in cui è posto, può assumere un valore religioso o culturale. I giudici, citando interi passi del Concilio Vaticano II, attribuiscono a tale simbolo una funzione altamente educativa anche per l’orizzonte laico. Ne riportiamo uno stralcio: 4 «La laicità, benché presupponga e richieda ovunque la distinzione fra la dimensione temporale e la dimensione spirituale e fra gli ordini e le società cui tali dimensioni sono proprie, non si realizza in termini costanti nel tempo e uniformi nei diversi Paesi, ma, pur all'interno di una medesima ‘civiltà’, è relativa alla specifica organizzazione istituzionale di ciascuno Stato, e quindi essenzialmente storica, legata com'è al divenire di questa organizzazione (in modo diverso, ad esempio, dovendo essere intesa la laicità in Italia con riferimento allo Stato risorgimentale, ove, nonostante la confessionalità di principio dello stesso, proclamata dallo Statuto fondamentale del Regno, furono consentite discriminazioni restrittive in danno degli enti ecclesiastici, e con riferimento allo Stato odierno, sorto dalla Costituzione repubblicana, ed ormai non più confessionale, ove però quelle discriminazioni non potrebbero aversi).

È evidente che il crocifisso è esso stesso un simbolo che può assumere diversi significati e servire per intenti diversi; innanzitutto per il luogo ove è posto. In un luogo di culto il crocifisso è propriamente ed esclusivamente un ‘simbolo religioso’, in quanto mira a sollecitare l'adesione riverente verso il fondatore della religione cristiana. In una sede non religiosa, come la scuola, destinata all'educazione dei giovani, il crocifisso potrà ancora rivestire per i credenti i suaccennati valori religiosi, ma per credenti e non credenti la sua esposizione sarà giustificata ed assumerà un significato non discriminatorio sotto il profilo religioso, se esso è in grado di rappresentare e di richiamare in forma sintetica immediatamente percepibile ed intuibile (al pari di ogni simbolo) valori civilmente rilevanti, e segnatamente quei valori che soggiacciono ed ispirano il nostro ordine costituzionale, fondamento del nostro convivere civile. In tal senso il crocifisso potrà svolgere, anche in un orizzonte ‘laico’, diverso da quello religioso che gli è proprio, una funzione simbolica altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni». Ed ecco il cardine della pronuncia: «in Italia, il crocifisso è atto ad esprimere, appunto in chiave simbolica, ma in modo adeguato, l'origine religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti dell'autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione, che connotano la civiltà italiana. Questi valori, che hanno impregnato di sé tradizioni, modo di vivere, cultura del popolo italiano, soggiacciono ed emergono dalle norme fondamentali della nostra Carta costituzionale, accolte tra i ‘Principi fondamentali’ e la Parte I della stessa, e, specificamente, da quelle richiamate dalla Corte costituzionale, delineanti la laicità propria dello Stato italiano. Il richiamo, attraverso il crocifisso, dell'origine religiosa di tali valori e della loro piena e radicale consonanza con gli insegnamenti cristiani, serve dunque a porre in evidenza la loro trascendente fondazione, senza mettere in discussione, anzi ribadendo, l'autonomia (non la contrapposizione, sottesa ad un’interpretazione ideologica della laicità che non trova riscontro alcuno nella nostra Carta fondamentale) dell'ordine temporale rispetto all'ordine spirituale, e senza sminuire la loro specifica ‘laicità’, confacente al contesto culturale fatto proprio e manifestato dall'ordinamento fondamentale dello Stato italiano». Un altro esempio riguarda la pronuncia della Corte di Strasburgo sul divieto turco del velo: i giudici giustificano il provvedimento sostenendo che questo non toccava le minoranze del Paese e, dunque, non si ispirava ad un principio quantitativo. Negli Stati Uniti, per offrire un ulteriore esemplificazione sui simboli religiosi, si fa riferimento ad una tecnica temporale. Se un simbolo è esposto da molto tempo può rimanere, in caso contrario deve essere rimosso. In Europa si può parlare di libertà delle religioni, mentre negli Usa di libertà di religione. /p>

Da segnalare, in proposito, l’istituzione in Québec della Commissione Bouchard e Taylor. Nel maggio 2008, i commissari Gérard Bouchard e Charles Taylor hanno reso pubbliche le conclusioni della loro commissione itinerante su quelli che sono stati chiamati gli ‘accomodamenti ragionevoli’. In questa tournée, che ha permesso di consultare il grande 5 pubblico e alcuni esperti, è stato raccomandato che, per conservare la neutralità dello Stato, sia vietato «ai magistrati, ai procuratori della Corona, alla polizia, alle guardie carcerarie e al vicepresidente e al presidente dell’Assemblea Nazionale del Québec» di portare segni religiosi ostensibili. Peraltro, «insegnanti, funzionari, professionisti della sanità e altri agenti dello Stato dovrebbero poter continuare a portare segni religiosi». Nel 2009, nessuna legge ha emanato delle raccomandazioni prodotte dalla Commissione. La parte conclusiva del seminario si è incentrata sulla costruzione dei luoghi di culto, in particolare delle moschee. È stato osservato che queste hanno funzione non solo cultuale, ma anche aggregativa. Al loro interno vi sono biblioteche, sale conferenze e spazi polifunzionali. In Italia, secondo il censimento del Ministero dell’Interno, si contano 781 moschee, o forse sarebbe meglio dire, luoghi di incontro per i fedeli di Allah. La maggior parte sono centri culturali, scuole coraniche o semplici associazioni ricavate in garage, palestre o scantinati. Di moschee vere e proprie, attualmente in Italia, ne esistono tre: a Roma, a Milano Segrate e l'ultima nata a Colle Val D'Elsa, ancora da inaugurare. Secondo il recente reportage «Vanguard», firmato da Silvia Luzzi e Luca Bellino, «le proposte ferme nei cassetti dei comuni italiani sono tante: Torino, Bologna, Ravenna, Castiglione delle Stiviere. La comunità musulmana chiede luoghi dignitosi dove poter pregare e le amministrazioni locali temporeggiano. A Milano c'è la comunità islamica più grande d'Italia, quasi centomila musulmani. È l'unica grande città d'Europa ad avere una moschea piccola 50 mq circa e posizionata nell'estrema periferia est, a segnare il confine tra Milano e Segrate. A Genova, invece, ci sono diecimila musulmani che pregano in cinque minuscoli locali adibiti a luoghi di culto». La resistenza di alcuni partiti e il timore esasperato dell’opinione pubblica comporta situazioni di stallo e di difficoltà nell’edificazione di tali luoghi di culto, nonché ostacoli pesanti in vista dell’integrazione e di ciò che il Cardinal Scola ha definito ‘meticciato’. A Brescia – terza città europea per tasso di stranieri dopo Atene e Vienna – si registra la presenza di una moschea, di cui recentemente è stato richiesto e respinto l’ampliamento (via Corsica) e di un centro islamico. È molto recente la notizia – riportata da www.reportageitalia.it – di un’imminente apertura, caldeggiata dall’Associazione Mohammadiah, di una moschea «per sole donne in un'altra zona di Brescia».

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