Etica, religione e Stato  liberale

Etica, religione e Stato liberale

J. Ratzinger - J. Habermas, Etica, religione e Stato liberale - a cura di M. Nicoletti, Morcelliana, Brescia 2008

Viviamo oggi in una società secolarizzata e pluralistica: la separazione fra politica e religione trova la sua migliore espressione nella neutralità dello Stato liberale, resa necessaria da quello che Rawls chiama il «fatto del pluralismo». “Pluralismo”, appunto, e non “pluralità”, perché il moltiplicarsi dei soggetti culturali sul suolo nazionale genera un conflitto che richiede di essere sanato con sempre più pressante urgenza. Come può una società pluralistica trovare i legami necessari per reggersi; legami etici, sulla base dei quali strutturare una convivenza che possa essere anche cooperazione per il raggiungimento del bene comune? Non è possibile affidare la soluzione del problema alla sola religione: la riduzione della pratica religiosa, la trasformazione della fede in una scelta fra le altre, la pluralità delle fedi fanno sì che la circolarità tra etica e religione non sia più funzionale. Ma allora, che ruolo possono avere i credenti in tale ricerca? Devono forse farsi da parte rinunciando definitivamente alla loro incidenza sociale?

Queste sono le linee direttive della questione su cui Habermas e Ratzinger, allora cardinale, si sono confrontati il 19 gennaio 2004 alla Katholische Akademie in Bayern: I fondamenti morali prepolitici dello Stato liberale. L’incontro, riportato per intero in questo libro sintetico ma denso di contenuti, segna la storia dei rapporti tra filosofia e religione. Pur partendo da presupposti diversi, «il più influente filosofo tedesco fin da Marx, Nietzsche e Heidegger» – come lo definisce nella Premessa Florian Schuller, direttore dell’Akademie – e il futuro papa Benedetto XVI, uniti dalla comune virtù di «presentare le proprie idee criticamente, col mezzo della ragione, “con lucidità concettuale”» (p. 18), approdano entrambi alla medesima conclusione scorgendo proprio nell’età post-secolare la possibilità di una feconda correlazione tra ragione e fede.

Punto di partenza dell’intervento di Habermas e dell'intero dialogo è la discussione del diktat di Böckenförde secondo cui lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti normativi che non è in grado di garantire. Sulla base della teoria habermasiana del diritto e della democrazia non è possibile condividere la comune interpretazione di questo assunto, secondo cui sarebbe la religione, o comunque una qualsiasi altra «potenza di sostegno», a fondare la validità dello Stato. Per Habermas infatti la procedura democratica è da intendersi come «metodo per produrre legittimità a partire dalla legalità» (p. 26): le norme giuridiche si fondano sul “principio democratico” secondo cui sono valide quelle norme approvate discorsivamente – seguendo cioè la teoria dell’agire comunicativo – dai consociati all’interno di procedure istituzionalizzate. Si tratta quindi di una «concezione proceduralistica» in cui «non sorgono più lacune di validità che devono essere riempite dall’“eticità”» (ibidem) perché appunto non vi sono presupposti normativi esterni alla procedura democratica. Inoltre è sempre in virtù delle stesse procedure democratiche, sedimentate nella coscienza del popolo attraverso la sua storia concreta, che i cittadini, autori del diritto e non meri destinatari, possono trovare le motivazioni per la partecipazione attiva richiesta dallo Stato costituzionale democratico. Salvaguardata l’autonomia dello Stato liberale, Habermas può riconoscere che esso si avvale anche di fondamenti esterni. La secolarizzazione, intesa come «una modernizzazione destabilizzante della società nel suo interno» (p. 30), potrebbe effettivamente indebolire il vincolo sociale su cui lo Stato fa affidamento. La crisi c’è e sembra prospettarsi il panorama descritto da Böckenförde che vede da una parte i singoli ritrarsi nei propri interessi privati e dall’altra i mercati espandersi intaccando ambiti finora regolati dalla politica. Poco opportuno leggere la situazione estremizzando le contrapposizioni nella direzione della critica della ragione in voga, imputando la colpa a una ragione autodistruttiva che sta raccogliendo quanto ha seminato e individuando la salvezza nella religione, l’unica capace di redimere la modernità pentita. Piuttosto, suggerisce Habermas, è il caso di considerare la persistenza della religione in un ambiente sempre più secolarizzato, «prendendo sul serio questo fenomeno anche in qualche modo dall’interno, come una sfida cognitiva» (p. 32).

Il filosofo tedesco si muove qui nel solco di una riflessione sulla religione inaugurata dal discorso Fede e sapere, di poco successivo al crollo delle Torri gemelle. Come ben illustra Nicoletti nell’Introduzione, se prima del 2001 Habermas riconosce sì un ruolo importante alla religione ma in ambiti “marginali” come la consolazione degli individui o la fondazione del senso della vita, in Fede e sapere la religione entra nel discorso pubblico come portatrice di ragioni che non possono essere ignorate. Sono già presenti i motivi del dialogo con Ratzinger. La ragione non deve limitarsi al rispetto della religione, ma deve essere disponibile ad apprendere da essa perché è portatrice di contenuti che altrove sono andati perduti, rimossi dalla «sobrietà etica» del pensiero post-metafisico (p. 34). Le intuizioni delle religioni sull’errore e sulla salvezza costituiscono l’unico patrimonio a cui l’umanità può attingere per «percepire e […] esprimere, in maniera altamente differenziata, la vita deviata, le patologie sociali, i fallimenti dei progetti di vita individuali e la deformazione di contesti vitali degradati» (p. 35). Per questo la filosofia deve continuare a esercitare quel lavoro di «traduzione salvante» dei contenuti dei testi sacri che nel corso dei secoli li ha dischiusi ad un pubblico più vasto, mutandoli senza però renderli vuoti.

Ecco che la secolarizzazione della società può essere compresa come «un processo di apprendimento complementare [… in cui] entrambe le parti possono prendere sul serio reciprocamente […] il loro contributo a temi controversi nella sfera pubblica» (p. 37). Certo questo implica uno sforzo reciproco da parte sia della religione sia della ragione. Habermas dice chiaramente che la religione deve abbandonare il dogmatismo: se essa nasce come “immagine del mondo”, deve oggi rinunciare a questo monopolio interpretativo riconoscendo l’autorità delle scienze, l’autonomia dello Stato e rispettando il pluralismo delle fedi religiose. Solo così la religione potrà esercitare la propria influenza nella sfera pubblica. Dai cittadini «privi di orecchio religioso» ci si aspetta invece che riconoscano “ragionevolezza” alla religione, partecipando essi stessi agli sforzi per tradurre i contenuti religiosi in linguaggio pubblicamente accessibile come richiede il loro ruolo di cittadini dello Stato liberale. Forse contrariamente a quanto qualcuno potrebbe aspettarsi, non è tanto sulla questione del dogmatismo che i nostri titani si scontrano: Ratzinger nel suo discorso considera attentamente le conquiste delle scienze – alla luce delle quali arriva a dubitare dell’efficacia del diritto naturale sostenuto dalla Chiesa (che risulta uno «strumento spuntato» alla luce della teoria dell’evoluzione [p. 50]) –, non mette in dubbio il ruolo dello Stato – suo è il compito di ordinare l’uso sensato delle scoperte scientifiche (p. 43) – e più di Habermas riconosce la pluralità delle fedi religiose – che tutte nella loro specificità sono invitate a entrare in relazione reciproca con il cristianesimo e la ragione occidentale (pp. 56-57).

In realtà ciò che contrappone i due è la concezione del diritto, cuore pulsante della questione in gioco: se ci si domanda come possano culture diverse trovare i fondamenti etici necessari alla convivenza e alla cooperazione, è chiaro che l’ordinamento giuridico è lo strumento su cui bisogna riflettere. Il diritto, afferma Ratzinger, per essere condiviso, deve essere espressione di una giustizia al servizio di tutti: per questo motivo è cruciale la questione della sua origine e dei suoi criteri intrinseci. Se si ritiene che le procedure democratiche garantendo la partecipazione di tutti alla costituzione del diritto risolvano il problema, bisogna però considerare che è proprio delle procedure democratiche stesse utilizzare gli strumenti della delega e della decisione a maggioranza per ovviare alla mancanza di unanimità fra i cittadini. Ora, come dimostra la storia, le maggioranze possono essere cieche e ingiuste: sarà diritto in assoluto ciò che emanano? «Perciò il principio di maggioranza lascia ancor sempre aperta la questione dei fondamenti etici del diritto, ossia la questione che porta a chiederci se non esista qualcosa che non può mai diventare diritto, qualcosa che rimane sempre in sé ingiustizia […], e, viceversa, se non esista anche quanto, per sua essenza, è diritto immutabile, precedente a ogni decisione di maggioranza e che da essa deve venir rispettato» (p. 44). Questa è la grande obiezione mossa a Habermas.

Ratzinger descrive l’età contemporanea come caratterizzata dall’enorme sviluppo delle possibilità dell’uomo. La fine della seconda guerra mondiale ci ha scoperti capaci di distruggere noi stessi e il nostro pianeta grazie all’invenzione della bomba atomica. Il terrorismo minaccia costantemente di dispiegare la sua oscura potenza distruttiva che si avvale anche di ragioni morali, presentandosi addirittura come difesa della tradizione religiosa: la religione stessa sembra coltivare in sé i germi dell’intolleranza e dell’estremismo. La scienza ci ha messo poi nelle condizioni di poter produrre esseri umani paventando la possibilità di selezionarli, utilizzarli per esperimenti, scartarli. È in questo panorama che si dispiegano le patologie sia della religione sia della ragione e si rende più che mai urgente un’«evidenza etica efficace», che risponda alle nuove sfide e possa essere accolta dalle diverse culture che oggi si incontrano e si fondano in una società mondiale. Gli stessi diritti umani, «ultimo elemento del diritto naturale» (p. 51), non si rivelano uno strumento all’altezza del compito: innanzitutto la loro evidenza non sembra essere riconosciuta in tutte le culture e inoltre dovrebbero essere integrati con una dottrina dei doveri e dei limiti dell’uomo. Se il cristianesimo e la tradizione occidentale della ragione, pur considerandosi universali de iure, de facto sono accettati e comprensibili solo da alcune parti dell’umanità, e se non esiste più unitarietà nemmeno all’interno delle aree culturali, caratterizzate da forti tensioni interne (si pensi all’islam, ma anche allo stesso Occidente diviso tra cultura secolare e cultura cristiana), allora non esiste una formula razionale, etica o religiosa che sia valida per tutto il mondo. O comunque al momento non può essere raggiunta.

La soluzione proposta è la stessa auspicata da Habermas, ma ha un respiro più ampio. Per scongiurare le rispettive patologie, fede cristiana e ragione devono porsi in relazione reciproca: «chiamate alla reciproca purificazione e al mutuo risanamento, […] hanno bisogno l’una dell’altra e devono riconoscersi l’una l’altra» (p. 56). Se esse hanno un peso indubbiamente maggiore sulla situazione mondiale rispetto alle altre potenze in campo, devono però porsi in ascolto di quest’ultime e relazionarsi con esse «nel tentativo di una correlazione polifonica» (ibidem). Sarà allora in questo «processo di purificazione universale» che emergeranno con «nuova forza d’illuminazione» i valori e le norme che accomunano tutti gli uomini, in cui i credenti scorgono il segno di quella trascendenza che tiene unito il mondo perché ne è l’origine (p. 57).

Habermas e Ratzinger offrono così sia ai laici sia ai credenti una nuova prospettiva che infonde speranza all’umanità, guardando con sano ottimismo alla società post-secolare come luogo d’elezione in cui ragione e fede, ma anche ragioni e fedi diverse dalle nostre, possono ritrovare se stesse in un dialogo fecondo.

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