Oltre le frontiere, per una nuova globalizzazione - Maurizio Ambrosini

Maurizio Ambrosini - Professore Ordinario di Sociologia dell’Ambiente e del Territorio
Università degli Studi di Milano

L’immigrazione può essere considerata una forma di globalizzazione dal basso, esercitata principalmente da persone comuni, cercando nella regolazione normativa i varchi disponibili o le possibilità d’insediamento anche ai margini delle norme.

Nello stesso tempo dunque l’immigrazione è una forma problematica d’immigrazione, nella visione delle società riceventi e delle loro istituzioni.

Di fatto però noi definiamo come “immigrati” solo una parte degli stranieri che risiedono stabilmente e lavorano nel nostro paese. Ne sono esentati non solo i cittadini francesi o tedeschi, ma pure australiani e coreani, anche quando ricadono nella definizione convenzionale di immigrati, in quanto residenti stranieri insediati in modo relativamente stabile. Raramente si contesta a un cittadino statunitense o canadese il diritto di entrare, uscire e circolare nel nostro paese. Gli si consente di portare con sé la propria famiglia. Il riconoscimento dei suoi titoli di studio, benché non proprio agevole, gode di un trattamento preferenziale rispetto a quello a cui sono sottoposti i titoli in possesso dei cittadini di paesi più deboli.

Lo stesso vale per il termine extracomunitari, un concetto giuridico (non appartenenti all’Unione europea), diventato invece sinonimo di “immigrati”, con conseguenze paradossali: non si applica agli statunitensi, e nemmeno ai giapponesi. Di fatto il termine ha recuperato la sua valenza etimologica: noi chiamiamo extracomunitari coloro che non fanno parte della nostra comunità intesa in senso lato, di cittadini del Nord del mondo.

Immigrati (ed extracomunitari) sono dunque ai nostri occhi soltanto gli stranieri provenienti da paesi che classifichiamo come poveri, mai quelli originari di paesi sviluppati. Il concetto contiene quindi un’implicita valenza peggiorativa: in quanto poveri, questi stranieri sono minacciosi, perché potrebbero volerci portare via qualcosa, oppure sono bisognosi di assistenza, e quindi suscettibili di rappresentare un carico per la nazione; e comunque sono considerati meno evoluti e civilizzati di noi.

E’ singolare poi la condizione dei cittadini di paesi di per sé classificabili come luoghi di emigrazione, ossia poveri e arretrati, ma individualmente riscattati dall’eccellenza nello sport, nella musica, nell’arte, o quanto meno negli affari. Neanche a essi si applica l’etichetta di “immigrati”: il loro successo li ha affrancati da quella condizione di povertà che si associa intrinsecamente alla nozione di immigrato. Come ha detto qualcuno, “la ricchezza sbianca”. Il calciatore africano o l’uomo d’affari medio-orientale non allarma particolarmente le società riceventi, e anche le sue eventuali diversità, religiose o alimentari, sono ampiamente tollerate. La stessa rappresentazione della diversità, e della sua eventuale minaccia per l’identità culturale della società ricevente, è quanto meno aggravata dall’abbinamento con la povertà. Si può quindi affermare che l’impiego del concetto di immigrato allude alla percezione di una doppia alterità: una nazionalità straniera e una condizione di povertà. Generalmente, quando un individuo o un gruppo riesce a liberarsi di uno di questi due stigmi, cessa di essere considerato un immigrato.

Vediamo ora come si potrebbe governare meglio il fenomeno. In primo luogo, per gestire un fenomeno complesso bisogna anzitutto conoscerlo. Almeno nei suoi contorni statistici. Il Global Compact for Migration lo stabilisce come primo obiettivo: «Raccogliere e utilizzare dati accurati e disaggregati come base per politiche basate su evidenze».

In secondo luogo, un fenomeno non debordante ma certamente di portata transnazionale come quello delle migrazioni non può essere risolto da ciascun governo a casa propria. Sono in gioco paesi di destinazione, di origine e di transito. Chi è più connesso al mondo globale per ragioni economiche (il turismo, per esempio), geografiche e culturali dovrebbe avere più interesse a lavorare di concerto con altri paesi. Un patto internazionale come il Global Compact, malgrado la sua indeterminatezza e il suo carattere non vincolante, rappresenta un passo nella giusta direzione. Non averlo sottoscritto ci isola e nel lungo periodo non sarà un buon affare.

In terzo luogo, non bisognerebbe parlare di immigrazione in generale, ma di categorie specifiche. In Italia, la legge prevede una ventina di tipi diversi di permesso di soggiorno, e oltre 400 milioni di non italiani ma cittadini dell’UE non ne avrebbero neppure bisogno se decidessero di calare in Italia. La distinzione delle causali per l’ingresso e il soggiorno dovrebbe essere una regola di base di ogni discussione argomentata sulle politiche migratorie. In termini propositivi, se si segmenta la massa amorfa e temuta dell’immigrazione e si focalizza l’attenzione su gruppi ben individuati, almeno una parte delle ansie dovrebbe sgonfiarsi. Per governare occorre distinguere: dovremmo parlare di cittadini europei mobili, di studenti, di infermieri, di assistenti familiari dette volgarmente badanti, di investitori, di gente che lavora in occupazioni lasciate scoperte dagli italiani, di congiunti di immigrati che qui vivono soli, di persone che fuggono da guerre e persecuzioni. Diverse fra queste categorie non trovano rigide barriere, alcune sono corteggiate e benvolute, altre almeno tollerate. Alla fine dell’esercizio, ci si accorgerà che dell’immigrazione incontenibile e temuta resterà ben poco. La gestione politica dell’immigrazione diventa più pragmatica e meno irta di preconcetti se viene articolata in questioni puntuali, circoscritte, e come tali più agevoli da maneggiare.

Quarto aspetto. Se si vuole difendere la causa degli immigrati, occorre scegliere dei buoni argomenti. Quello basato sulle colpe dell’Occidente non mi pare tale, o ha comunque una portata circoscritta: la visione dell’immigrazione come esito della nostra indifferenza o anche del nostro sfruttamento nei confronti dell’Africa o di altre regioni del mondo, del colonialismo e di altre malefatte. Ricorrendo a questo argomento in realtà si collude in fin dei conti con la visione nazional-populista: si finisce per condividere la visione dell’immigrazione come patologia sociale, proveniente dall’Africa, derivante dalla povertà e dal sottosviluppo. L’Occidente ha di certo molte responsabilità, e dall’Africa arriva un certo numero di persone in fuga, anche per le guerre fomentate da interessi occidentali e dagli armamenti forniti ai belligeranti. Ma è sbagliato pensare che l’immigrazione in generale sia un fenomeno da interpretare negativamente, indotto dall’ingiustizia globale e derivante dalla povertà o dalle catastrofi naturali. Anche lo slogan “aiutiamoli a casa loro”, che sembra portare acqua al mulino della solidarietà tra i popoli, è ingannevole e pericoloso.

Quinto suggerimento. Se prendiamo in esame il tema oggi più controverso, quello dell’accoglienza

dei rifugiati, occorre trarre le conseguenze da un dato : l’85% è accolto in paesi in via di sviluppo.

Il sovranismo ha avuto successo sul piano politico perché ha vinto sul piano culturale, definendo i termini della questione sulla base di percezioni allarmistiche e riuscendo a spingere anche i suoi avversari a discuterne sulla base dei suoi presupposti. In genere falsi sul piano fattuale.

Una trappola in cui cadono anche voci benintenzionate è quella di convenire che l’allarme sociale e

anche le percezioni enfatiche derivino da migrazioni disordinate. Per definizione, però, la fuga da guerre e persecuzioni non può essere programmata. I richiedenti asilo arriveranno sempre in forme imprevedibili, in gran parte mediante canali non ortodossi, specialmente e i governi dei paesi verso cui vorrebbero dirigersi continueranno a tenere chiusi gli accessi legali. Il recente caso dei rifugiati ucraini mostra l’importanza dell’apertura di possibilità d’ingresso e insediamento, nelle diverse forme possibili. Va anche aggiunto onestamente che persone traumatizzate da conflitti e pulizie etniche, torturate, ferite, terrorizzate, non saranno tutte in grado di rendersi autonome e di guadagnarsi da vivere da sole in poco tempo.

Ciò che si può proporre per limitare il disordine, tagliare i profitti dei passatori e soprattutto ridurre i rischi per la vita delle persone in fuga, va nella direzione di ampliare le possibilità di reinsediamento: ossia l’accoglienza in un secondo paese, in base a quote prefissate, di chi ha trovato provvisorio rifugio in un primo paese di asilo. In genere confinante, poco sicuro anch’esso, povero di risorse per misure adeguate di protezione. I corridoi umanitari organizzati dalle Chiese cattoliche e protestanti in Italia sono un progetto interessante in questa direzione.

Caratteristiche dell'evento

Inizio evento Mercoledì 27 Aprile 2022 | 17:45
Luogo Aula Montini Università Cattolica