2022 - 2023 LA VITA UMANA TRA NATURA E CULTURA
LA VITA UMANA TRA NATURA E CULTURA
Il tema della vita umana degna di essere vissuta occupa la discussione pubblica da qualche tempo anche in Italia: alcuni casi di morte procurata per porre fine a sofferenze ritenute insopportabili, il dibattito parlamentare sulla legge per il suicidio assistito, alcuni orientamenti di pensiero che premono perché si riconosca legalmente l’eutanasia, provocano a pensare con quali criteri si debba valutare una vita umana degna. Nella questione sono implicati problemi di carattere metodologico (come si riesce a stabilire quando la vita umana vada comunque custodita?), antropologico (fino a quando la vita umana può essere detta “umana”?), etico (fino a che punto è eticamente lecito intervenire sulla vita umana?), giuridico (chi stabilisce i “limiti” di intervento sulla vita umana? Il diritto della singola persona ad avere una vita umana “degna” corrisponde alla misura stabilita dai singoli o si deve/può immaginare che ci sia un “limite” a questa misura? E qual è? In gioco è il rapporto tra antropologia, etica e diritto/legge), politico (il legislatore che funzione svolge in rapporto alla vita umana e alla sua custodia?). Si tratta di una selva di problemi che si pongono nell’attuale congiuntura culturale e politica e richiedono risposte ponderate.
Obiettivo del percorso di riflessione è sondare la possibilità di convergere su una comprensione di una vita umana “degna” in un contesto di pluralismo di visioni, molte volte contrapposte sia nel dibattito pubblico sia negli orientamenti politici. Per usare l’immagine assunta da papa Francesco: passare dalla sfera al poliedro per superare assolutismi e individualismi. Il pluralismo è una ricchezza perché permette di comprendere la realtà secondo diverse sfaccettature. Il problema pare sia come trovare convergenze verso una “verità”, pur asintotica.
Lezioni interattive guidate
RESPONSABILE SCIENTIFICO
Prof. Mons. Giacomo Canobbio
Direttore Scientifico Accademia Cattolica
Adriano Fabris - Pluralismo di visioni e ricerca della verità
Adriano Fabris
Professore Ordinario di Filosofia Morale
Università di Pisa
In questi tempi si parla tanto di pluralismo. Anche perché – è un dato di fatto – le visioni del mondo e della vita oggi sono molte, più che nel passato. Non è detto però che esse convivano pacificamente. Il ritorno della guerra, anche alle porte dell’Europa, lo dimostra a sufficienza.
Si parla tanto di pluralismo considerandolo, acriticamente, un valore indiscusso. In realtà bisognerebbe distinguere pluralità da pluralismo. “Pluralità” si riferisce a un dato di fatto: alla molteplicità di posizioni oggi effettivamente compresenti, in un contesto di globalizzazione, sulla scena del mondo. Ma un conto è assumere un dato di fatto, un conto considerare il fatto come un valore. Il dato di fatto della compresenza oggi di una molteplicità di visioni è il problema da affrontare, non la soluzione da adottare.
Sostenere, come accade fin troppo spesso, che una posizione vale l’altra, che tutte le opinioni sono legittime; pretendere di essere ascoltati qualunque tesi si avanzi, perché “secondo me” essa è valida, è un errore. Lo è perché alla fine una decisione viene presa, a colpi di maggioranza o perché qualcuno, più forte, s’impone. E non è detto che ciò che s’impone sia vero.
La filosofia, nell’antica Grecia, è nata proprio per evitare questo esito. La ricerca della verità, di una verità condivisa, è intesa come antidoto alla violenza e all’ingiustizia: quella, ad esempio, che ha portato in Atene alla morte di Socrate. Oggi, però, la ripresa di questi temi è urgente. La conferenza cercherà di rilanciarli approfondendo e discutendo, soprattutto, la questione della verità e quella dell’universalità.
Vincenzo Costa - La vita umana tra dato biologico e struttura relazionale
Vincenzo Costa
Professore Ordinario di Filosofia teoretica
Università Vita Salute San Raffaele
I neuroni specchio hanno aperto una strada inedita nella ricerca del fondamento biologico della comprensione tra gli esseri umani e della struttura della relazione. Da essi non si può prescindere, e tuttavia la struttura della relazione umana appare essere irriducibile ad essi, anche se li implica. In particolare, se la relazione umana consiste nella creazione di un "noi", il sorgere di questo tipo di esperienza si mostra restio ad essere indagato attraverso quella struttura neurale. SI tratta allora di interrogarsi sulla struttura fenomenologica dell'esperienza della relazione e di chiedersi come questa si strutturi attorno alla capacità di decentrarsi.
La caratteristica dell’esistenza umana è infatti quella di abitare un orizzonte di significati, che rappresentano ciò che la persona può essere, per cui nel rapporto alle possibilità e agli altri per l’essere umano ne va del proprio essere: di chi vuole essere.
Le azioni umane devono allora essere comprese a partire da questo orizzonte di possibilità che interpellano l’esistenza, e non spiegate attraverso una riduzione a meccanismi chimico-fisici. La peculiarità dell’esistenza umana è che il cervello supporta un’esperienza che ha un dinamismo autonomo e irriducibile, anche se ovviamente a ogni esperienza corrisponde e deve corrispondere un correlato neurale.
Massimo Reichlin - Figure di vita umana “degna” nell’attuale contesto culturale
Massimo Reichlin
Professore Ordinario di Filosofia Morale
Università Vita-Salute San Raffaele Milano
Il contesto culturale dell'odierna riflessione sulla vita è segnato dall'enfasi che la bioetica ha posto sulla nozione di autodeterminazione individuale. Questo concetto prospetta un condividibile superamento della tradizionale concezione "paternalistica" del rapporto medico-paziente, ma, se enfatizzato in maniera unilaterale, comporta conseguenze discutibili; configura cioè un'immagine della vita degna come segnata dall'autosufficienza dell'individuo, dimenticando la relazionalità e la vulnerabilità che sono elementi costitutivi della condizione umana. La differenza tra il modello univocamente basato sull'autonomia e un modello che tiene conto delle suddette dimensioni si manifesta con chiarezza nell'ambito della gestione delle patologie neurodegenerative che portano a compromissioni anche radicali della capacità di coscienza e di autodeterminazione. La concezione della vita degna basata sull'autodeterminazione individuale non consente di scorgere il valore che la vita umana possiede anche in situazioni estreme, come quelle dello stato vegetativo e di minima coscienza. Difendere le ragioni della cura di questi pazienti comporta la difesa di un'immagine alternativa della vita umana degna.
Fabrizio Turoldo - Disponibilità e indisponibilità della vita umana
Fabrizio Turoldo
Professore Ordinario di Filosofia Morale
Università Cà Foscari Venezia
Mercoledì 11 gennaio vi aspettiamo alle 18, in Aula Magna dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, via Trieste 17, per la conferenza dal titolo “Disponibilità e indisponibilità della vita”. Che cosa possiamo fare noi con la tecnica? Che cosa può fare la tecnica di noi? Il Prof. Fabrizio Turoldo, ordinario di filosofia morale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, affronterà la questione della disponibilità-indisponibilità della vita umana, oggi più che mai urgente e attuale.
Laura Palazzani - Legislazione ed etica in rapporto alla vita umana
Laura Palazzani
Professore Ordinario di Filosofia del diritto.
Università di Roma LUMSA
Emerge in modo sempre più evidente l’esigenza di una regolamentazione giuridica delle pratiche biomediche e sociosanitarie, conseguenti al progresso scientifico e tecnologico a livello nazionale ed internazionale. Ai problemi ormai ‘tradizionali’ della bioetica (inizio vita e fine vita), si affacciano sempre nuovi problemi (neuroscienze, gene-editing, potenziamento, intelligenza artificiale, robotica) che esigono una regolamentazione. Pochi sono i sostenitori in bioetica di uno “spazio libero dal diritto”, che affida alla autodeterminazione individuale, alla autodisciplina del ricercatore o alla regolamentazione ‘soft’ dei codici deontologici l’orientamento delle scelte in tale ambito. Eppure si registra un ritardo di una risposta giuridica alla domanda bioetica sociale e, nell’ambito delle risposte giuridiche, una considerevole eterogeneità se si confrontano i diversi Paesi, le diverse legislazioni e la giurisprudenza.
L'intervento focalizzerà l'attenzione sulle ragioni del ritardo del diritto e le difficoltà del biodiritto di fronte al pluralismo etico, alla ricerca di difficili mediazioni. Verranno analizzati alcuni esempi di regolazioni biogiuridiche recenti relative all'inizio della vita umana, della fine della vita umana e delle tecnologie emergenti.
Laura Boella - Essere “padroni” della propria vita o accogliere la vita come dono?
Laura Boella
Professore Ordinario di Filosofia Morale
Università degli Studi di Milano
Oggi si pretende di controllare tutto in un mondo per molti versi fuori controllo. L’individualismo sfrenato (sii l’imprenditore di te stesso) convive con l’idea che forze superiori (il web, il deep state, la finanza globale, la geopolitica, i processi del pianeta Terra) ci passano sopra la testa e al comune mortale non resti che il “mero vivere”, ossia una precaria sopravvivenza (biologica, economica). Di qui l’urgenza di una disputa sul senso della vita che sia produttiva, che metta in movimento entrambi i lati della contraddizione che segna oggi più che mai la condizione umana.
Alle prospettive antropologiche, giuridiche, mediche, bioetiche e religiose che sono state proposte in questo ciclo, aggiungerò la mia incentrata sul tema della responsabilità diventata nel pensiero contemporaneo, in particolare in quello che si è interrogato sulle conseguenze distruttive della capacità di intervenire sulla vita umana e sull’ambiente, la radice generativa dell’etica.
Claudio Cuccia, Ottavio Di Stefano e Alberto Michele Giannini - Quando finisce la vita: la morte tra evento e decisione
Sabato 15 aprile vi aspettiamo alle 8.45 in Sala Convegni di Fondazione Poliambulanza, Via Bissolati 57, per la conferenza dal titolo “Quando finisce la vita: la morte tra evento e decisione”. Ottavio di Stefano, presidente dell’Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri della provincia di Brescia, Alberto Michele Giannini, direttore S.C. di anestesia e rianimazione pediatrica dell’ospedale dei bambini ASST Spedali Civili di Brescia e Claudio Cuccia, responsabile dell'U.O. di Cardiologia di Fondazione Poliambulanza, affronteranno il tema della morte come evento ultimo della vita, tra difficoltà di scelta e accoglienza dei limiti con cui la medicina si confronta quotidianamente.
Valerio Terraroli - La “vittoria” della morte: la forza performativa dell’arte
Mercoledì 10 maggio vi aspettiamo alle 18 in Aula Magna dell’Università Cattolica, Via Trieste 17, per la conferenza «La vittoria della morte: la forza performativa dell’arte», proposto dall’Accademia Cattolica. Il prof. Valerio Terraroli, ordinario di Museologia e Critica Artistica e del Restauro presso l’Università di Verona, tratterà il tema della rappresentazione della Morte dalle civiltà antiche ai giorni nostri.
La rappresentazione della morte appartiene a tutte le civiltà e dalle epoche più antiche, ma se nel mondo classico essa assume i caratteri satirici di un invito a godere dei piaceri della vita, nell'Europa medievale essa assume una sorta di personificazione come personificazione, intesa quale figura autonoma che compie azioni precise in una visione escatologica della vita umana.
Proviene dal Medio Oriente l'iconografia dell'Incontro dei tre vivi e dei tre morti che è l'antesignana dell'evoluzione che avviene dalla metà del Trecento, per gli effetti della Peste Nera, della raffigurazione della Morte che, in Italia, assume l'aspetto nitido e pulito di uno scheletro, mentre Oltralpe si assesta sulla rappresentazione del corpo in decomposizione: di questa particolare rappresentazione restano significative testimonianze dall'età di Federico II di Svevia agli affreschi di Buffalmacco nel Camposanto di Pisa.
Nel corso del Quattrocento in area francese e tedesca si elabora una nuova e complessa iconografia, la Danza macabra, nella quale la Morte si moltiplica e trascina i vivi in una danza irrefrenabile e folle in cui ad ogni vivente rappresentante di diverse categorie della gerarchia sociale (imperatore, papa, cavaliere, dama, monaco, contadino ecc.) si affianca ghignante uno scheletro o un cadavere in atto di suonare e/o danzare. In Italia, anche sulla scorta dei Trionfi di Francesco Petrarca, il tema del fine vita, per certi versi unito al tema della fine del mondo, si esemplifica nel Trionfo della Morte in cui una Morte sovrana domina il mondo e rende uguali tutti gli umani davanti al destino finale. Esempi di straordinario impatto visivo sono il Trionfo proveniente da palazzo Sclafani ed oggi nella Galleria Regionale di palazzo Abatellis a Palermo e il ciclo macabro dei Disciplini di Clusone.
Sono inoltre da considerare sia la ricchissima produzione miniatoria sia quella grafica (xilografie e incisioni) che a partire dagli inizia del Trecento illustrano i Libri d'Ore, ma soprattutto i Trattati del ben morire o i Trattati della Buona Morte.
Tali iconografie, che talvolta appaiono combinate e mischiate, hanno una larghissima diffusione per tutto il secolo XVI, caratterizzato da profezie millenaristiche e da pestilenze e guerre, fino alla peste del 1630, con qualche ripresa nel corso del secolo XVIII, e riprendono fiato, certo con modalità espressive completamente diverse nelle ar arti del Novecento: dall'arte figurativa alla fotografia, dalla danza al cinema.
Giacomo Canobbio – Svamini Hamsananda Ghiri - Fine e compimento della vita: una prospettiva interreligiosa
Mercoledì 31 maggio vi aspettiamo alle 18 in Aula Magna dell’Università Cattolica, via Trieste 17, per la conferenza «Fine e compimento della vita: una prospettiva interreligiosa». Giacomo Canobbio, professore emerito di Teologia sistematica presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale e direttore scientifico dell’Accademia Cattolica, e Svamini Shuddhananda Ghiri, Vicepresidente Unione Induista Italiana Sanatana Dharma Samgha, dialogheranno riguardo a vita, fine e compimento in una prospettiva interreligiosa.
La morte e i temi ad essa legati hanno assunto sempre più i contorni di un nuovo tabù. La tendenza diffusa di esorcizzare la morte propria della società di oggi sembra combinarsi con una crescente, seppur celata, alienazione e confusione di valori.
Fatta eccezione per alcune realtà, tra cui hospice, ospedali e alcune associazioni che mostrano un crescente interesse per queste tematiche, gran parte dell'umanità non ama disquisire sulla morte, piuttosto preferisce far finta che non esista. L’evento della morte e la riflessione su di essa esercitano da sempre un potere determinante sull’uomo costringendolo, da un lato, a un'affannosa ricerca del senso della vita, e, dall'altro, all'insorgere dell'abbaglio curioso di esserne immune.
Già nel Mahabharata, Yudhisthira, il figlio del Dio Dharma, interrogato dal padre su quale fosse la cosa più sorprendente del mondo, risponde che nonostante ogni giorno siano infinite le persone che muoiono, coloro che restano credono di vivere per sempre.
Nella visione induista la nascita e la morte non sono considerate come inizio e fine della vita, quindi, non come due punti posti su un asse di tempo lineare bensì sono ritenuti attimi, transizioni all'interno di un andamento ciclico del tempo e della vita.
Già dagli inni presenti nel Veda si osserva che la tendenza generale della tradizione induista non è quella di estromettere la morte dalla vita quanto piuttosto di considerarla come il corollario stesso della vita.
Giacomo Canobbio
Difficile integrare la morte nell’esistenza. Non c’è vivente che non si ribelli di fronte alla morte. Entrati nella vita non si vorrebbe mai uscirne. Gli esseri umani non si differenziano in questo dagli altri viventi. La consapevolezza, frutto della constatazione, che comunque morire si deve porta a nascondere con vari stratagemmi il dato di fatto, accettato mediante processi di razionalizzazione, ma emotivamente rifiutato.
La morte occultata
Tragicomica, ma sintomatica, la scena riportata da Philippe Ariés, uno dei più noti studiosi della percezione della morte nella cultura occidentale: in una Funeral Home statunitense ci si può imbattere in un morto seduto alla scrivania o in poltrona con il toscano in bocca, come se stesse ricevendo i visitatori (cfr. L’uomo e la morte dal medioevo a oggi, Laterza, Roma-Bari 1980, p. 709).
La morte attesa
Solo i mistici o i radicalmente delusi dalla vita mostrano di non temere la morte: i primi perché la vedono come porta che apre alla visione beatificante di Dio; gli altri perché la vedono come liberazione. Per i primi si tratta di portare a compimento una relazione che ha sorretto la vita. Ne è un esempio San Paolo, il quale nutre il desiderio di morire per essere con Cristo. Così l’Apostolo prigioniero, quindi posto effettivamente di fronte alla possibilità di morire, scrive ai cristiani di Filippi: «Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero cosa scegliere. Sono stretto infatti tra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita (il verbo greco è analusai, tipico del linguaggio marinaro: sciogliere le gomene) per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo» (Fil 1,21-24). Il passo, pur costruito sull’alternativa vita-morte, non stabilisce una contrapposizione tra il vivere e il morire, quasi ci si trovasse di fronte a una svalutazione del vivere: infatti anche nell’attività apostolica Cristo è glorificato nel corpo di Paolo (cfr. Fil 1,20). Ciò significa che la morte non può interrompere la comunione con Cristo; anzi, la rende ancora più intima poiché permette di raggiungere il “luogo” in cui Cristo si trova, in attesa del compimento finale.
La morte come liberazione dai mali della vita
Di coloro che vedono la morte come liberazione l’esempio più noto è quello di Giobbe. La pesantezza di una vita che si presenta come incomprensibile diventa per lui la ragione per invocare la morte. L’attacco poetico del capitolo 3 fa percepire al lettore che la morte è meglio della vita, quando questa è segnata da una malattia “ingiusta”, è diventata il nemico da maledire, perché è solo schiavitù, prigione, sofferenza.
La consapevolezza di dover morire genera sapienza
Se però si prescinde da questi ideal-tipo, si deve riconoscere che la morte incute paura. Ancora di più agli esseri umani dell’era della tecnica. Mettere in conto la morte rende sapienti, cioè capaci di restituirsi alla consapevolezza della dipendenza dalla natura, a fronte della presunzione di essere dominatori della realtà tutta, presunzione che si è accentuata nell’epoca moderna grazie ai grandi risultati raggiunti dalla scienza e dalla tecnica.
Nonostante tutte le razionalizzazioni, gli esseri umani, se hanno paura della morte e cercano in tutti i modi di sfuggirle, mostrano di percepire che questa non dovrebbe appartenere loro. Essa continua e continuerà ad essere percepita come l’ultimo nemico, ultimo non soltanto perché arriva alla fine e pone fine, ma pure perché appare il più potente, perfino invincibile. Se però il desiderio radicale degli umani è di vincerlo, si è posti di fronte a un dilemma: considerare il desiderio una frustrante illusione, oppure riconoscere che esso si può tradurre in speranza che Qualcuno venga in soccorso. Le religioni – tra esse il forma singolare il cristianesimo – hanno offerto agli esseri umani questa possibilità di apertura, educandoli a stabilire una relazione salvante con Chi ha messo nel loro cuore questo desiderio.