Pensare il dopo – Prof. Enrico Minelli

Pensare il dopo – Prof. Enrico Minelli

Pensare il dopo. Lo dovremo fare tutti, teologi, filosofi, artisti, scienziati, politici, lavoratori, imprenditori, cittadini…

Questi giorni di distanza, di lentezza e silenzio, carichi di tristezza per la morte di tante persone, possono forse aiutarci a riscoprire in noi un desiderio profondo di parlarci, di confrontarci, ognuno dal suo punto di osservazione, per cercare insieme idee e spunti per il futuro.

Chi per mestiere insegna si trova a ripensare il senso delle conoscenze che cerca ogni giorno di condividere con i ragazzi e le ragazze che incontra in classe, anche se ora solo in modalità telematica.

La mia esperienza è quella di insegnante di Economia Politica agli studenti del primo anno dell’Università. La materia che insegno a molti studenti appare troppo astratta, con tutto il suo apparato di formule e grafici in cui le variabili sono prezzi e quantità di beni comprati e venduti…

Poi però sui giornali si parla di “rischi letali per l’Europa”, “paura di una crisi umana e sociale”, ed è chiaro che questi temi, che hanno a che fare con la vita delle persone, abbiano anche molto a che fare con l’economia. Anzi, ogni volta si identifica qualche scelta economica come origine del problema: oggi il rigorismo dei paesi del nord, ieri la rapacità della finanza, ancor prima la globalizzazione dei mercati.

Eppure il messaggio fondamentale dell’Economia Politica, quello con il quale è nata e che ancora oggi ne costituisce il cuore è: dipendiamo tutti gli uni dagli altri, e la nostra diversità, di gusti e di dotazioni, è la vera “ricchezza delle nazioni”, quella di cui parlava Adam Smith nel suo libro del 1796. In un mondo di individui identici, nessuno avrebbe niente da scambiare o da condividere…

Come si spiega che una disciplina nata come un’utopia positiva spesso sia percepita come una gabbia di ferro, che stritola le vite di individui e comunità?

Al di là di ogni discorso teorico, aiutano gli studi empirici. Un libro appena uscito ha un titolo raggelante Morte per disperazione e futuro del capitalismo. Non si tratta di un pamphlet polemico scritto da qualche ideologo antisistema, ma della sintesi di un meticoloso lavoro empirico condotto da un premio Nobel di economia insieme ad una delle più rispettate ricercatrici sociali americane, tutti e due professori a Princeton.

L’analisi non lascia scampo. Negli ultimi vent’anni, negli Stati Uniti, le morti per suicidio o per overdose sono quintuplicate nella popolazione bianca appartenente alla fascia di età 45-55. In questo gruppo sociale, tra il 1999 e il 2017 si sono verificate 600.000 morti in più di quelle che ci si sarebbe aspettati in base ai dati demografici.

Per la prima volta nella storia recente dei paesi occidentali, la speranza di vita di una significativa porzione della popolazione si riduce invece di crescere. L’unico precedente di un fenomeno simile, a livello mondiale si è avuto negli anni della prima guerra mondiale, anche per gli effetti della grande epidemia di influenza, tornata tristemente alla memoria proprio in questo periodo.

Nel caso studiato dai due economisti di Princeton però la causa non è un’epidemia, ma, come argomentato in modo dettagliato nel libro, la spinta verso un’economia sempre più deregolata: distruzione del potere dei sindacati, eliminazione e/o demonizzazione delle forme di sostegno al reddito, deregolamentazione del mercato delle medicine (in particolari gli oppiodi, fonte di giganteschi profitti per le multinazionali produttrici).

La variabile che, in un’analisi dettagliata, provincia per provincia, riesce a spiegare più di ogni altra l’aumento delle morti degli americani bianchi in età di lavoro è una sola: la disoccupazione. La perdita del lavoro, in una società in cui lo “stato sociale” è ridotto al minimo, è la principale causa di suicidi, alcolismo, depressione, ricorso alle droghe.

E qui torniamo all’Economia Politica. L’idea che la ricchezza delle nazioni nasca dall’interdipendenza e dalla diversità è molto più generale di quella della “Mano invisibile”, ma è quest’ultima che ha avuto più successo e più influenza.

La mano invisibile, che dovrebbe coordinare le scelte egoistiche di ciascuno verso una soluzione di massimo benessere per tutti, funziona quando ogni cosa ha un prezzo, generato dalla domanda e dall’offerta. Ma quando si tratta di fiducia negli altri, di autostima, di accettazione sociale, qual è il prezzo? O quando si parla di invenzioni di medicinali che possono creare dipendenze?

Sono tutti casi di quelle che gli economisti chiamano “esternalità”: effetti diretti sul benessere delle persone, non mediate dal sistema dei prezzi. L’esempio classico, non rilevante per l’analisi empirica di cui stiamo parlando, ma molto rilevante per il mondo in cui viviamo e vivremo, è quello dell’inquinamento. Ma sono esternalità anche le decisioni dei governi europei che faticano a coordinarsi, o quelle, oggi, delle diverse regioni italiane che a volte procedono in ordine sparso.

Ecco allora un pensiero che potremmo portare con noi per quando si potrà ricominciare a incontrarsi. Tornare alle vere radici dell’economia, cioè all’idea di interdipendenza, e rimettere l’idea della mano invisibile al suo giusto posto: un’idea interessante, ma valida solo per un sottoinsieme limitato di beni, e non come paradigma unico di ogni relazione sociale. La maggior parte delle scelte importanti, quelle che hanno a che fare con la salute, l’istruzione, l’identità, il sentirsi parte di qualcosa, non possono essere trattate come se fossero scelte individuali, di acquisto e vendita la prezzo di mercato, sono sempre scelte che generano “esternalità”, positive o negative. La mano invisibile è un meccanismo potente, ma per molte scelte non può funzionare, servono altri meccanismi sociali e politici, forse più complicati, ma spesso più saggi. Meccanismi che negli Stati Uniti sono stati smantellati più in profondità che da noi, generando altissimi costi per tante persone, e che noi, già da oggi, dovremo cercare di rafforzare in Italia e in Europa, per preparaci al dopo.