L’identità nascosta, la malattia come velo

L’identità nascosta, la malattia come velo

La malattia è una cartina di tornasole della nostra identità. Contribuisce allo svelamento di noi, ma soprattutto della nostra vita. A turno ci interpella tutti. Perché la malattia, banale o crudele, capita a tutti di incontrarla. E dunque è una componente ineludibile della nostra formazione umana, di ciò che siamo, una esperienza - riferimento della nostra biografia. Ci fa scoprire solitudini e rapporti interpersonali, rassegnazione e reazione, sopportazione e fiducia, diffidenza e consapevolezza.

Da punto di vista umano la nostra vita si svolge senza che l’intelligenza si renda conto fino in fondo di ciò che essa è. A volte ci illudiamo di capirla, ma essa corre con un ritmo troppo diverso dalle nostre previsioni e dalle nostre consapevolezze. La nostra vita è un tempo sfasato. Al fondo della nostra esistenza ci sono delle ombre insondabili, delle forze che oltrepassano ogni nostra capacità di comprensione. A cominciare dal passaggio più insondabile: la nostra morte. Noi non la conosciamo. Così, ad esempio, non ci rendiamo mai conto fino in fondo delle nostre colpe, della nostra malvagità, della nostra cattiveria, che rimangono per questo abissi sconosciuti. Cosi come vi è una costante reazione di fronte alla malattia, alla sofferenza. Ne sentiamo l’ingiustizia. Una prova cui non è giusto sottometterci. Per paradosso, consideriamo la sofferenza legittima se comminata ad un colpevole, se misurata sulla colpa. Ma quando distribuita con totale casualità, in maniera così caotica e imprevedibile, come accade con le malattie, anche e soprattutto quelle più drammatiche, dai tumori all’Alzheimer, allora ci assale all’improvviso il senso della nostra impotenza, ci ritroviamo impreparati, come di fronte all’inesplicabile.  Nella malattia la nostra esistenza va in scacco. Perché, in quelle condizioni, ogni ragione va in scacco.

Quando arriva la malattia molti di noi sono costretti, sovente per la prima volta, ad affrontare il mistero della vita.  Che dunque mette a prova e misura e dà consistenza alla identità personale di ciascuno. La malattia inserisce   nell’esistenza, e in concreto, la dimensione della paura. La malattia enfatizza in ciascuno di noi (provare per credere), la dimensione della paura. E le piccole paure quotidiane diventano “la paura” dell’esistenza, il disagio della vita.

Vi sono molte pagine illuminanti della scienza e della letteratura su questo tema. Mi piace qui, in brevissima sintesi, ricordare il magistrale Quaderni di Malte Laurids Brigge di Rainer Maria Rilke, che è una specie di diario dell’anima. Si misura con i temi della speranza e della disperazione, del silenzio e del nonsenso, del vivere e del morire, della memoria e della nostalgia. Ne trascrivo prima poche righe di sintesi sulla paura, che si fa figura inquietante e affascinante. «La paura che un piccolo filo di lana uscito dall’orlo della coperta sia duro, duro e acuminato come un ago di acciaio, la paura che questa briciola di pane, sul punto di cadere dal letto, diventi di vetro e si frantumi al suolo, e il pensiero angoscioso che con essa tutto vada in frantumi, tutto e per sempre, […] la paura di tradirmi e di dire tutto quello che mi spaventa, e la paura di non poter dire nulla perché tutto è indicibile».

E poi vi aggiungo, per rafforzare il tema dell’identità che nasce dall’esperienza della malattia e della paura, alcune righe  dello stesso volume che sono un monito:  «Bisognerebbe  saper attendere una vita intera e possibilmente lunga, senso e dolcezza […] bisogna vedere molte città, uomini e cose, […] bisogna saper ripensare a incontri inaspettati e congedi previsti, a malattie infantili che cominciavano in modo così strano con tante profonde e grevi trasformazioni, a giorni in stanze silenziose, […] bisogna essere stati vicini ai morti nella stanza con la finestra aperta e i rumori intermittenti, bisogna essere stati accanto ad agonizzanti» affinché  «i ricordi diventino sangue in noi, sguardo e gesto, non più distinguibili da noi stessi». Adesso le paure, la malattia sono diventati parte della nostra identità.

 Per lo più la medicina ci ha tolto quasi del tutto il dolore fisico.  Ma la sofferenza della malattia, soprattutto quando è crudele, è un appuntamento che fa i conti con il nostro atteggiamento di fondo nei confronti della vita e del modo di guardala, e di concepirla. E’ il tempo il cui ci presentiamo nudi davanti a noi stessi. Con tutte le conseguenze, i corollari, le mutazioni che tutto questo comporta.

A me pare, in una metafora azzardata, che la malattia, per ognuno di noi che la subisce, sia anche leggibile come lo sfondo della nostra condizione sociale, che è in questo tempo il senso di disorientamento. Abbiamo coltivato una cultura del frammentario, dell’individualismo, dell’inquietudine che diventa estraneità, sentimento di impotenza verso il mondo che ci circonda, disinteresse per la storia che ci sta scorrendo accanto. La malattia ci costringe a svelare di noi un disagio   simile alla mancanza di quiete collettiva del nostro tempo.

Qui è la letteratura che ha scritto pagine illuminanti per testimoniare “il controtempo” della malattia simile al “controtempo” della storia e della vita. E’ la malattia dell’inquietudine che attraversa il novecento e che è arrivata sino ai giorni nostri. L’inquietudine che diventa disagio di vivere, il sentimento di estraneità nei confronti della realtà che ci circonda. La malattia che ci disorienta, alimenta lo scollamento con il mondo in cui siamo immersi. La storia della nostra malattia è come la storia del novecento, ci fa sentire fuori orario. Succede ai personaggi di Albert Camus, sempre imprigionati in una capsula di estraneità, e a Samuel Beckett, i cui personaggi sono sempre fermi al capolinea, e alla mancanza di quiete che domina tutta la narrazione di Fernando Pessoa. Ma è Primo Levi che racconterà l’estremo dell’inquietudine storica e umana, l’apice della malattia del novecento. Primo Levi racconterà quello che è impossibile da raccontare, così da trasmettere l’inquietudine, al limite del sopportabile. Se questo è un uomo ci trasmette il turbamento della malattia finale. Le parole di Levi non sono solo la descrizione della macchina mortifera, la narrazione della eliminazione fisica, della tortura e della violenza, bensì la narrazione della distruzione di quelle categorie che noi riteniamo intrinseche alla stessa natura umana, il sogno, l’idea del tempo che a ciascuno è dato.  «Ad Auschwitz non pareva possibile che esistesse un mondo e un tempo se non il nostro mondo di fango, e il nostro tempo sterile di cui eravamo ormai incapaci di immaginare una fine. Per noi, la storia si era fermata».

Perché la malattia è anche un lampo di ricognizione: capita finalmente durante il suo corso di capire qualcosa di noi che sapevamo da sempre e non volevamo sapere.

Infine, la domanda che ci facciamo sempre: la malattia può costruire qualcosa della nostra identità personale, della nostra vita?  Qualcosa cambia. Se lo pronunciamo senza punto interrogativo, vuol dire che ha il valore dell’evidenza negata. Ma in realtà qualcosa succede. Perché è la nostra risposta all’evento che testimonia quanto la malattia sia un velo che si apre sulla realtà, è la risposta alla nostra esperienza che contiene anche parte della risposta al mistero della vita. Mi piacerebbe avere lo spazio per raccontare la parte conclusiva della biografia di Pietro Scoppola, intellettuale immerso nella Storia del suo tempo. E’ una conclusione tutta trascorsa dentro la malattia.  Dalla malattia fu vinto, ma colse l’esperienza più difficile della vita per ritrovare il senso del suo essere cristiano. Ne descrisse l’avventura in presa diretta, in celebri pagine pubblicate dall’Editrice Morcelliana di Brescia.

 «Con l’assurdo della malattia dobbiamo misurarci, dargli un senso, dominarlo: anche l’assurdo fa parte della realtà».